Gela. Parlare dell’Unità d’Italia, e del raffronto fatto da qualche storico non venduto al nuovo sistema, sembra veramente assurdo e inconcepibile. Scandalizza che storici e scrittori prezzolati abbiano potuto riportare eventi distanti dalla realtà. L’impressione, solo per i più attenti, è che abbiano inventato storie in favore dei piemontesi che, in quell’epoca, hanno fatto l’Italia spargendo sangue senza scrupolo alcuno. Lo si apprende anche leggendo i documenti di alcuni storici, non di parte, come Giovanni Berlinguer, docente di medicina legale all’università di Sassari, intervenuto sulla mortalità infantile. Le sue parole sono scolpite nelle pagine del mensile “Vitalità”, nell’edizione del marzo 1970, dove scriveva: “Cento anni fa, ed ancora all’inizio del nostro secolo, i livelli più bassi di mortalità infantili si osservano in Campania, nel Regno delle due Sicilie e in Sardegna e sino alla fine del secolo scorso, i livelli più elevati si registravano nelle regioni del nord: Lombardia, Piemonte, Emilia e Romagna. Ora (anno 1970), invece, la situazione è invertita. La mortalità infantile più elevata si registra nel sud, dove l’indice è del 50 per mille. Non credo di nutrire simpatie Borboniche. Le ragioni penso che vadano ricercate nella storia economica sociale dell’Italia”.
Anche Francesco Saverio Nitti, sulla scia di quanto affermato da Berlinguer, intervenne su temi che oggi vengono catalogati sotto la dicitura “questione meridionale”. A fine secolo, Nitti, riuscì a cancellare la menzogna dell’Unità smontando la leggenda del “burocratismo” meridionale, dimostrando, in maniera puntuale, che gli uffici dello Stato Italiano fossero concentrati prevalentemente nelle regioni del nord. In Piemonte, fino al 1898, erano concentrati ben 41 ministri, contro i 47 dell’intero sud. Lo studioso Francesco Saverio Nitti, noto politico di sinistra, nel suo libro “Scienze delle finanze” quantificò in 668,4 milioni il totale della moneta apportata dagli antichi stati Italiani al momento dell’unificazione al regno, di cui ben 443,2 milioni provenienti dal regno delle due Sicilie, 27 milioni dal regno piemontese dei Savoia. Un altro economista molto conosciuto alla cultura “mangiasoldi” Italiana, Vito Tanzi, con una carriera ai vertici del Fondo Monetario Internazionale e segretario all’Economia e finanze, dal 2001 al 2003, nel suo libro “Italica” (Gran Torino, 2012) evidenziò che oggi il 60% del debito pubblico totale dell’Italia nel 1861 era di origine Sabauda , mentre l’incidenza del passivo che deriva dal regno delle due Sicilie era insignificante, perché Ferdinando II re dei Borboni, a differenza del re dei Savoia (il macellaio Vittorio Emanuele II) era allergico ai bilanci in rosso e all’eccessiva tassazione, che il deficit Italiano, in quel momento stratosferico predominava. Il suo ragionamento si affianca a quello di Stephanie Collet, storico della finanza all’università libre de Bruxelles, che suggeriva ai lettori di osservare l’Unità d’Italia per comprendere meglio l’attuale processo di integrazione Europea. La Collet, inoltre, nel luglio del 2012, pubblicò uno studio sull’analisi del processo di unione monetaria degli stati membri della unione Europea, prendendo a modello quello seguito all’unificazione italiana tra il 1862 e il 1905 e mettendo in evidenza il forte indebitamento del regno di Sardegna, causato dalla natura bellica dei piemontesi e caratterizzato dagli alti tassi d’interessi a fronte del sistema economico virtuoso, con ridottissimo debito e tassi, del Regno delle due Sicilie cui i Savoia fecero pagare il peso finanziario della conquista. Per la Collet era Napoli la città più importante del nuovo Regno e le regioni del sud avevano una discreta struttura industriale e un’agricoltura fiorente, anche se ancora basata sul latifondo e porti commerciali molto importanti.
Se volessimo fare un raffronto, il regno delle due Sicilie in Europa era la Germania di prima del covid, mentre il Piemonte era simile all’attuale Grecia. Il debito pubblico dell’Italia di oggi ha le sue origini Sabaude mentre quello delle due Sicilie era insignificante. Il debito stratosferico di oggi è iniziato allora per colpa di Torino, cui non spettava in alcun modo il ruolo di Capitale d’Italia. Per giustificare questo comportamento, più simile a quello mafioso, misero in atto e furono create attorno ai napoletani delle “leggende nere”. Si tratta di maldicenze che ancora oggi figurano in tanti manuali scolastici e raccontati da tutta quella cultura prezzolata d’Italia. Infatti, solo in Italia, il titolo “Borbonico” è un termine dispregiativo, mentre in Spagna e in Francia, Stati che non hanno avuto un risorgimento come in Italia, i Borboni vengono ricordati per quello che hanno rappresentato, cioè i sovrani.
Il 10 maggio del 1734, Carlo di Borbone Farnese, rientrava a Napoli, sottraendo all’Austria la preziosissima collezione esistente nei palazzi Farnese di Parma e Brescia, dove lui era stato Duca, trasportando il tutto a Napoli. La parte Emiliana della collezione Farnese fu ereditata per intero dalla madre Elisabetta che sarebbe finita a Vienna. Ma solo con il trattato di pace del 1738 l’Austria rinunciò definitivamente a quanto si custodiva nella città di Napoli. Questo trapasso doloroso per la città di Parma fu provvidenziale per tutta l’Italia, perché segnò la ripresa dell’arricchimento artistico della città. Ma l’avvio del 1738 degli scavi di Pompei ed Ercolano segnarono e provocarono veramente uno sconvolgimento del gusto e del pensiero Europeo. I lavori, in un primo momento, furono indirizzati al ritrovamento di oggetti preziosi, ma la scoperta della villa dei papiri di Ercolano aprì al sovrano nuovi scenari che sfociarono immediatamente nell’importanza del sito di interesse archeologico, sotto il profilo del prestigio e dell’immagine. Così, le rovine delle antiche città di Herculanum, Pompeii, Hoplontis e Stabiae, divennero musei a cielo aperto che attirarono viaggiatori del Grand Tour, turisti ricchi dell’epoca, inglesi e francesi alla scoperta dell’antichissima cultura romana. Questo nuovo mondo permise all’erede Ferdinando di Borbone, nel 1777, di cancellare la proprietà privata delle collezioni di famiglia per renderle pubbliche e donarle alla città. Nacquero così il Real Museo, La Biblioteca dei Regi Studi e le Scuole di Belle Arti. La città di Napoli accrebbe moltissimo il suo prestigio e, nel riprendere i modelli dei greci e romani, divenne la culla del Neoclassicismo. Una visione del padre Carlo per rendere la città partenopea una vera capitale europea, con la presenza di Gianbattista Vico e di Antonio Genovese. Essendo la città un riferimento musicale molto importante, il Re pensò di fare edificare il palazzo reale e, successivamente, di fare edificare la reggia di Capodimonte, Portici e Caserta. Si decise subito a dare alla città il cuore pulsante della musica con il Real teatro di San Carlo, da considerarsi la prima Reale Delizia Borbonica inaugurata il 4 novembre del 1737, giorno del compleanno del sovrano, costruito in soli duecentosettanta giorni e quarantuno anni prima della scala di Milano, la cui costruzione è costata solo 100.000 Ducati. Il genio di Salisburgo, Mozart, vi mise piede giovanissimo e ne fu molto influenzato anche da lontano quando a Vienna riecheggiavano le opere dei grandi musicisti della Scuola Napoletana, quali: Cimarosa, Paisiello, Mercadante, Scarlatti, Pergolesi, Traetta, Jommelli, Porpora, Leo e Durante. Così Napoli divenne in Europa la capitale della musica in assoluto.
Il progettista e il costruttore, rispettivamente Giovanni Antonio Medrano e Angelo Carasale, seguirono alla lettera le aspettative del sovrano.
Mi piace chiudere questo breve commento sulle cose che caratterizzavano in positivo il Regno delle due Sicilie, usando una citazione del grande poeta francese Standhal, autore tra le altre della “Chartreuse de Parme”, durante una sua visita al teatro ricostruito: “La prima impressione è d’essere pervenuti al palazzo di un imperatore orientale – scriveva Standhal -. Gli occhi sono abbagliati, l’anima rapita, ( ). Non c’è nulla in tutta Europa che non dico si avvicini a questo teatro, ma ne dia la più pallida idea (…) . Questa sala, ricostruita in trenta giorni, è come un colpo di stato. Essa garantisce al Re meglio della legge più perfetta, il favore popolare. Io stesso mi ritrovo profondamento monarchico.”
Quasi ad ignorare le parole di Standhal l’abbandono del teatro San Carlo che dopo l’unificazione viene dimenticato in favore di quelli del nord, tra tutte la Scala di Milano. Dopo l’invasione barbarica dei piemontesi e la costituzione del regno d’Italia, senza sangue e senza tribolazione, anche il nostro capo dello Stato ha messo una pietra tombale sulla “questione meridionale”, unendosi al coro di chi preferisce dimenticare e chiudere quella pagina Italiana gloriosa e festosa.
(Forgione, “Made in Naples”)