Gela. “Avevo solo chiesto spiegazioni dopo il danneggiamento della saracinesca del mio garage. Non ho accusato nessuno ma sono stato aggredito da Ventura e da suo figlio”.
“Non ho visto chi avesse il cacciavite”. A parlare in aula è stato l’uomo che, nel luglio dello scorso anno, sarebbe stato più volte colpito, stando ai magistrati della procura anche con un cacciavite, tanto da subire profonde ferite interne. A processo, c’è il quarantunenne Matteo Ventura, accusato di tentato omicidio. Sarebbe stato l’imputato, in base a quanto ricostruito dagli investigatori, a scagliasi contro la vittima. Tutto si verificò a Scavone, tra le palazzine dello Iacp. “Non ricordo, però, chi utilizzò il cacciavite – ha continuato il testimone – c’era molta gente e tutto era confuso. Alla fine, sono riuscito a raggiungere la mia auto e ad arrivare in ospedale”. L’uomo, intanto, si è costituito parte civile con gli avvocati Giuseppe Simonetti e Samantha Rinaldo. L’imputato, invece, è difeso dagli avvocati Valentina Lo Porto e Grazio Ferrara. Proprio i difensori hanno cercato di ricostruire quei lunghi minuti, sottolineando comunque come la vittima dell’aggressione non sia stato in grado d’individuare chi lo abbia colpito con un cacciavite. Il pubblico ministero Antonio D’Antona ha insistito soprattutto sul cacciavite che avrebbe causato le ferite più profonde. La moglie della vittima, sentita in aula, ha addirittura escluso di aver visto un cacciavite impugnato dai presunti aggressori. Una ricostruzione che sembra, comunque, aver convinto poco il pubblico ministero, soprattutto alla luce di quanto indicato nei verbali redatti dai carabinieri che arrestarono Matteo Ventura. Si tornerà davanti al collegio penale, presieduto dal giudice Silvia Passanisi e composto anche da Tiziana Landoni e Marica Marino, alla prossima udienza del 9 luglio.