Gela. Sottoposto ad estorsione da un gruppo di gelesi, legati al clan di cosa nostra attivo nelle provincie di Milano e Varese, ha cercato di depistare gli investigatori, addirittura imponendo
alla moglie di rilasciare false dichiarazioni.
Il ristoratore ha sempre negato le richieste estorsive. E’ diventata definitiva la condanna, a quattro anni e mezzo di reclusione, per un ristoratore, finito a processo con le accuse di favoreggiamento e false dichiarazioni. In sostanza, avrebbe volontariamente cercato di coprire esponenti della criminalità locale gelese, da tempo residenti in Lombardia.
A chiedergli costantemente soldi, ma anche auto, pranzi e cene gratis, erano boss di cosa nostra gelese come Rosario Vizzini e Fabio Nicastro, oggi collaboratori di giustizia. Il ristoratore, però, avrebbe fino all’ultimo cercato di negare quanto accaduto, addirittura inducendo la moglie a presentare falsa documentazione medica, che potesse attestare, dopo le dichiarazioni rilasciate dalla donna agli investigatori, un eventuale stato di precarietà psichica. I giudici della Corte di Cassazione, ai quali si è rivolto il legale dell’imputato, negli scorsi mesi hanno respinto il ricorso, confermando quanto deciso sia dal gup del tribunale di Milano sia dalla Corte di appello. Per la difesa, l’uomo avrebbe cercato di negare le continue imposizioni solo per evitare possibili ripercussioni. Una linea, però, che non ha convinto i giudici, certi nel ritenere che l’imputato fosse a sua volta diventato un vero e proprio confidente dei boss gelesi.