Gela. Nove anni di ospedale psichiatrico giudiziario per accuse che sono tutte cadute. Il legale del trentaquattrenne Antonio La Perna, l’avvocato Concetta Di Stefano, ha chiesto che venga risarcito per quanto patito. Si sarebbe trattato di ingiusta detenzione. Anni di reclusione che pesano ancora oggi sullo stato psichico e fisico di La Perna, che entrò per la prima volta in un opg quando era poco più che ventenne. Inizialmente accusato di un’estorsione ai danni della nonna (le avrebbe chiesto pochi euro), il suo è diventato un calvario nonostante la donna avesse poi ritirato la denuncia. Il padre Salvatore ha sempre chiesto di rivedere la misura imposta al figlio, ma i suoi appelli sono caduti nel vuoto. La Perna ha lasciato l’ultimo opg nel quale era stato trasferito solo tre anni fa. Fino ad allora non erano bastate continue istanze e la produzione di cartelle cliniche che attestavano l’incompatibilità tra la detenzione e le sue condizioni fisiche e psichiche. Per questo motivo, il legale si è rivolto ai giudici della Corte d’appello di Caltanissetta. Nel corso dell’udienza tenutasi oggi, la procura generale ha chiesto di respingere il ricorso. Per i magistrati non ci sarebbero gli estremi dell’ingiusta detenzione. Una linea che invece è stata contestata dalla difesa, convinta che quanto accaduto al trentaquattrenne abbia violato tutte le norme in materia di custodia cautelare negli ospedali psichiatrici giudiziari. Adesso, toccherà ai giudici della Corte d’appello nissena valutare le richieste ed emettere un verdetto sull’istanza di risarcimento.
Che il caso avesse oramai travalicato ogni limite normativo, seppur solo quattro anni fa, lo aveva capito l’allora direttore dell’opg di Reggio Emilia Valeria Calevro. Nell’aprile del 2014, con i pareri favorevoli del dirigente medico e della psicoterapeuta della struttura, scrisse all’ex ministro della giustizia Andrea Orlando. Per il direttore dell’ospedale psichiatrico giudiziario emiliano, la detenzione di La Perna violava i diritti umani. Un “ergastolo bianco”, così lo definiva nella missiva inviata al ministro. Solo un anno dopo, però, il trentaquattrenne riuscì a lasciare la struttura.