Gela. “Rigetta tutte le domande del ricorso”.
La richiesta di fermo degi impianti. Il giudice civile Virgilio Dante Bernardi ha respinto per intero il ricorso straordinario presentato dai legali di quasi quattrocento cittadini, che sostanzialmente chiedevano di bloccare per intero ogni attività del gruppo Eni in città, dando immediatamente avvio alle operazioni di bonifica. Per loro, in base ad una maxi perizia, è certa la connessione tra presenza industriale e danni alla salute, dalle malfomazioni alle gravissime patologie, accertate con tassi percentuali spesso superiori alla media nazionale. In base a quanto disposto dal magistrato, sia i cittadini ricorrenti sia il Comune dovranno pagare le spese del giudizio sostenute dalle società del cane a sei zampe, costituite in giudizio. Il ricorso straordinario era stato presentato dai legali Luigi Fontanella, Laura Vassallo e Giuseppe Fontanella. “E’ però risultato nel corso dell’istruttoria, dall’audizione degli informatori, nonché dalla documentazione, invero ingente e non sempre realmente pertinente, prodotta agli atti del giudizio – si legge nell’ordinanza firmata dal giudice – che il diritto soggettivo alla salute dei ricorrenti non è seriamente messo a repentaglio dalle attività attualmente svolgentisi entro l’area del cosiddetto Petrolchimico, ridottesi, come è emerso in istruttoria, a quelle riferibili agli impianti Tas, Taf, biologico organico e industriale oltre a quella meramente estrattiva”. Con il ricorso, sono state chiamate in causa tutte le società del gruppo Eni attive in città, oltre al Comune che, però, con l’avvocato Mario Cosenza, ha addirittura ribaltato le carte, chiedendo che venissero accolte le richieste dei cittadini, imponendo alla multinazionale il pagamento di ottanta milioni di euro, da destinare ad un fondo di sussistenza in favore delle famiglie dei lavoratori, eventualmente costretti ad uscire dal ciclo produttivo proprio a seguito del fermo delle attività nel sito locale. Invece, il giudice ha accolto le tesi dei legali di Eni che, fin dalla costituzione in giudizio, hanno chiesto di respingere il ricorso. Nel ricorso straordinario, si chiedeva il fermo di impianti come la centrale termoelettrica, il coking, il craking, che per il giudice, però, non sono più in marcia, stando a quanto ricostruito anche dai tecnici sentiti nel corso dell’istruttoria, e non comporterebbero alcun rischio per il diritto alla salute. Stessa linea assunta anche per le attività estrattive di Enimed. “I ricorrenti non portano evidenze tali per cui vi sia in concreto e nell’attualità un rischio dall’attuale attività di estrazione del petrolio – scrive il giudice – né dal suo trasporto. Infatti, il richiamo all’inquinamento nell’area della Piana di Gela attiene ancora una volta ad un inquinamento pregresso, e magari anche diffuso, frutto di attività svoltesi in passato, ma proprio per questo rientrante ancora una volta, nella misura in cui concerne la dedotta contaminazione del terreno e del suo sottosuolo mediante “sostanze, preparati, organismi o microrganismi nocivi per l’ambiente” rappresentando un “un rischio significativo di effetti nocivi, anche indiretti, sulla salute umana” (art. 300, comma 2, lett. d del codice dell’ambiente), nella perfetta definizione datane dal codice dell’ambiente nel già menzionato articolo 300, e, come tale, pertanto fuori della competenza del giudice ordinario, ma riservato alla potestà dell’autorità amministrativa statale e in particolare del ministero dell’ambiente”. Come più volte indicato nell’ordinanza, l’eventuale competenza non ricade sulla giustizia ordinaria, in questo caso quella civile, ma eventualmente nella sfera amministrativa.
La competenza del Ministero. Il giudice Bernardi, nella motivazione che l’ha condotto a respingere il ricorso, separa proprio l’eventuale danno alla salute, di sua competenza, da quello ad un ambiente salubre, che invece rientrerebbe negli schemi normativi del codice dell’ambiente e nell’orbita degli interventi del ministero.
Nell’ordinanza, il magistrato precisa di non potersi sostituire alle autorità competenti, neanche in tema di bonifica. Insomma, non avrebbe facoltà di ordinare l’avvio di processi di bonifica, che spettano invece ad altre autorità. “Esiste, ed appare indiscutibile che esista – e nemmeno le società resistenti lo hanno contestato – un ingente inquinamento entro l’area, definita come Sin di Gela (ovvero sito d’interesse nazionale di Gela), che è oggetto delle approntate procedure di bonifica, per la cui predisposizione, attuazione, implementazione e controllo la legge ha preposto specifiche autorità amministrative – si legge – con al vertice il Ministro dell’ambiente e complesse procedure amministrative e tecniche; autorità che ne sono legittimamente titolari sicché apparirebbe del tutto extra ordinem un provvedimento di altro potere dello Stato, come quello giurisdizionale civile, che le espropriasse di tale funzione, peraltro, è pur da dirsi, senza essere in possesso della strumentazione tecnica di cui, per definizione, solo la struttura amministrativa è detentrice, ai fini della effettiva attuazione del programma di bonifica e dei controlli”.
Piuttosto eloquente sembra la scelta di non dar seguito alla richiesta di blocco totale delle attività della raffineria. “La domanda di blocco generalizzato di tutte le attività – scrive il giudice – non tiene conto di quelle che potrebbero avere un effetto attualmente inquinante e perciò foriero di possibili lesioni alla salute dei singoli ricorrenti distinguendole da quelle del tutto prive di una tale potenzialità lesiva e perciò, ove la domanda fosse accolta disponendo il richiesto indistinto blocco, finendo per ridondare in un danno ingiustificato alle resistenti e alla produzione”. Dopo una lunghissima attività istruttoria, il giudice ha sciolto la riserva e le attività di Eni sul territorio non verranno bloccate. Ipotesi che era stata da subito contestata dai legali della multinazionale, gli avvocati Giuseppe Lombardi, Lotario Dittrich, Vincenzo Maria Larocca, Cristina Grassi e Antonino Longo.