Gela. Un essere umano che rinnega suo padre, i suoi antenati, le sue tradizioni, ha perso qualsiasi segno di civiltà e moralità. Così una nazione che rinnega la propria storia, ha perso la sua dignità di essere nazione, cancellato le proprie tradizioni, con tutta la storia che né ricorda la vita passata.
A noi meridionali i piemontesi hanno cancellato la nostra dignità di esseri umani, obbligandoci a nascondere tutta la storia risorgimentale dal 1860, costringendo tutta la popolazione dello stato unito, a non fare cenno sui fatti storici avvenuti con la conquista dei popoli del sud.
I popoli del nord hanno volutamente rimosso non solo dalla memoria, ma anche dagli archivi dello stato e tutta la cultura meridionale e italiana è impegnata a stendere una spessa coltre di silenzio sui fatti accaduti nel regno delle due sicilie, costringendo tutti gli uomini di cultura a cancellare quel periodo storico e a non considerarlo, salvo per la lotta contro il brigantaggio. Noi, ad oggi, viviamo in un caos profondo, dove i valori tradizionali sono completamente spariti, dall’amore per noi stessi all’amore per la patria a quello cristiano osannato dalla chiesa cattolica.
L’egoismo individuale si è instaurato in maniera profonda, in questa società malata, dominata dalla giustizia latente che non riesce a trovare soluzione ai processi trattati. Questi gli insegnamenti dei governi piemontesi a partire da quello retto dal conte Camillo Benso di Cavour, seguito da Bettino Ricasoli, da Urbano Rattazzi fino ai nostri giorni.
Le province meridionali che, nel periodo interessato, subirono deportazioni, prigionia, fucilazioni e restrizioni della libertà, tali da far parlare di “ferocia come dogma governativo”.
Dopo che Garibaldi aveva attraversato lo stretto di Messina per raggiungere la Calabria, il governo piemontese aveva fretta di far sapere che l’esercito borbonico avesse preso la decisione di passare sotto il governo regio dei savoiardi. Ma l’inviato da Cavour, Emidio Visconte Venosta, così scriveva a Cavour: “per quanto riguarda i militari che sono in rapporto con noi è possibile raggiungere lo scopo desiderato, ma sono isolati, divisi e poco fiduciosi per tutto il resto che li circonda. Così si formarono due gruppi fondamentali, uno formato dall’esercito e dal popolo semplice fedele al re, l’altro, guidato dalla borghesia settentrionale che creerà la grande industria dell’alta Italia, imponendo la più vorace fiscalità che mai sistema borghese abbia realizzato.
I gruppi camorristici manovrati da Liborio Romano e quelli che operavano in Sicilia con Francesco Crispi, si erano convinti che con i vinti, avrebbero avuto grandi possibilità di lucro e enorme vantaggio economico ma si sbagliavano perché furono messi da parte dai nuovi governanti. A difesa del regno con Francesco II, rimasero circa 86.000 uomini che cercarono i tre punti estremi di difesa a Gaeta, Messina e Civitella, che una volta conquistate e presi prigionieri, furono definiti spregiativamente “briganti”. Non vogliamo immetterci nei processi ideologici che si stavano svolgendo in quel periodo storico particolare, dove da una le aspirazioni economiche della borghesia la trasvalutazione di tutti i valori in valori di borsa e i processi di razionalizzazione e di scristianizzazione, sono un passaggio epocale evidenziato da Tomaso di Lampedusa nella forma. “Noi fummo i gattopardi, i leoni, quelli che ci sostituiranno saranno gli sciacalli, le iene”.
Il 26/gennaio/1861 quando ancora Gaeta, Civitella del Tronto e Messina non avevano capitolato, gli ufficiali napoletani fatti prigionieri erano 1.700 i soldati erano 24.000 non considerando quelli sbandati. Questo enorme numero di prigionieri per la campagna di liberazione del mezzogiorno, mise in difficoltà i piemontesi per il trasferimento al nord e il loro internamento nelle città del Piemonte. La quantità si riscontra nel telegramma del principe Eugenio di Savoia che da Mola, comunica al generale Della Rocca, a Napoli, il 14 gennaio 1861, l’invio di “duemila prigionieri a Capri, ottocento a Nisida; cinquecento a Baia, ottocento a Procida e mille a Bagnoli. Voglia -continua il principe- invitare il colonnello Revel a provvederli di viveri. Saranno pure inviati prigionieri a Ponza ed Ischia, ma questi saranno muniti di viveri dal generale Cialdini”.
I carichi ammassati nelle stive di battelli malridotti, arrivavano a Genova per essere sinistrati nelle varie località del nord. Partivano per Fenestrelle, per San Maurizio Canavese, Alessandria, S. Benigno, Milano, Bergamo e così via. Il giornale la civiltà cattolica descrive i disagi, gli stenti ed i patimenti dei deportati. I soldati napoletani, a detta dello stesso Cialdini, vengono stipati in grande numero in bastimenti, peggio di come venivano trattati gli animali e poi si mandano a Genova dove all’arrivo vengono raccolti buttati a terra prima del trasferimento finale. Molti finivano nelle gelide celle di finestrelle, coperti con luridi panni e col cibo razionato con un pezzetto di pane ogni due giorni in attesa che dichiarassero di abituarsi al vecchio re e si convincessero di obbedire al nuovo re savoiardo. Dai pochi documenti messi a disposizione dai ricercatori, molti sono gli esempi che documentano queste atrocità imposte ai soldati Napoletani, considerati peggio degli schiavi di colore, senza fare distinzione tra malati e sani, simile infamie gridano vendetta da Dio, e presto o tardi l’otterranno. Stessa sorte subirono i 1.500 militari pontifici, composti tra Francesi, Belgi, Svizzeri, Irlandesi e Italiani che una volta liberati dichiararono di essere stati maltrattati e derubati non solo dai sodati dei Savoia ma anche dagli ufficiali.
I difensori di Gaeta, dopo la capitolazione, ebbero un trattamento diverso, i 10.000 soldati e i 920 ufficiali, furono raccolti nelle isole di Procida, Ischia, Capri e Ponza in parte chiusi nelle fortezze di Napoli e in parte imbarcati per Genova, quelli di massima sicurezza.
I 428 soldati e 152 ufficiali, furono rinchiusi tra Scilla, Milazzo e Reggio.