Pier Paolo Pasolini martire, l’eroe, l’uomo che aveva capito tutto. E Pasolini l’impostore, la fonte di tutti i vizi della cultura italiana, il poeta da buttare nella spazzatura e da dimenticare al più presto. A quarant’anni di distanza dalla morte dello scrittore, ucciso ad Ostia il 2 novembre del 1975,è ancora impossibile parlare di Pasolini senza isterie: o viene considerato (in maggioranza) un’icona da omaggiare con devozione filiale, oppure da profanare per liberarsi della sua presenza considerata asfissiante.
Il quarantennale della morte del poeta è stato ricordato da libri e libri che indagano sul suo massacro (complice una verità giudiziaria parziale): a volte aggiungendo elementi all’ipotesi che sia stato vittima di un omicidio politico, più spesso ribadendo ricostruzioni sentite e risentite mille volte. Il rumore di fondo di questa intensa produzione editoriale dà la sensazione che Pasolini sia diventato un caso criminale, dove decisivo diventa scoprire il mandante del suo assassinio, non indagare la sua letteratura, come se questo aggiungesse chissà cosa all’opera di un autore che ha dedicato la sua vita a scrivere poesie, romanzi, racconti, drammi, saggi e sceneggiature. Ha girato documentari e film. Però è stato fissato nella memoria collettiva alla sua morte tragica, l’unica cosa che sembra ormai interessare questo Paese.
Pasolini è l’intellettuale più citato e meno letto d’Italia. Quanto in vita era imprendibile e imprevedibile, quanto dopo la morte è stato ricoperto di banalità. La politica l’ha letteralmente sbranato. La sinistra, la destra, i cattolici, gli estremisti, i giustizialisti, i complottisti, gli ambientalisti, i propagandisti della decrescita felice: ognuno ha preso il pezzo che più gli faceva più comodo e l’ha dilatato sino a ricomprendere totalmente l’immagine. Ne sono venute fuori tante figurine ottime per il marketing culturale, editoriale e politico, in cui l’opera di Pasolini si trasforma in un souvenir. C’è il Pasolini anarchico, comunista o liberal. E c’è il Pasolini reazionario, passatista e difensore della tradizione. C’è il Pasolini contro l’aborto e c’è il Pasolini trasgressivo che vive una sessualità feroce e violenta. C’è il Pasolini dell'”io so ma non ho le prove”, eroe di tutti i dietrologi. E c’è il Pasolini che nell’ultima intervista a Furio Colombo dichiara cosa che: “Soprattutto il complotto ci fa delirare. Ci libera da tutto il peso di confrontarci da soli con la verità”. Come nei supermercati, c’è un Pasolini per tutti i gusti. Perché ogni partito, gruppo, corrente, setta, tribù, ha costruito un Pasolini a sua immagine e somiglianza.
I monumenti edificati a Pasolini per celebrarlo l’hanno reso irreale e falso. La beatificazione cominciata appena dopo la morte è stata martellante, decisa, vincente. Il pasolinismo – cioè l’ideologia costituita dalla somma di tutte queste credenze – è riuscito a imporre un discorso su Pasolini lontano mille miglia dall’opera di Pasolini. La contraddizione, cioè il fondamento di tutta la produzione pasoliniana, è stata rimossa completamente. Tutti hanno un’idea chiarissima di ciò che Pasolini diceva, tranne Pasolini stesso: che era abitato da conflitti spaventosi, dove non c’era una tesi, un’anti-tesi e poi il vissero felice e contenti della sintesi. No. Il suo era un conflitto costante e irrisolvibile. Costitutivo. Era “lo scandalo del contraddirmi”, come aveva confessato nella poesia Le ceneri di Gramsci. “Dell’essere con te e contro te; con te nel cuore, in luce, contro te nelle buie viscere”.
Pasolini è stato trasformato nel Padre padrone della Cultura Italiana. Un genitore ingombrante a cui si deve tendere, ma che non si può eguagliare. I figli si sono divisi in due: c’è chi è stato un ubbidiente figliol prodigo sottomesso all’autorità (la maggioranza) e chi a questa autorità si è ribellato, profanandola e liquidandola in poche righe (o, come oggi va di moda, con un tweet). Entrambe le posizioni, apparentemente così distanti, sono però vittime dello stesso equivoco: vivere all’ombra di una figura sacralizzata e mistificata, un mito a cui si deve l’omaggio riverente o l’oltraggio blasfemo, una figura da celebrare con devozione, oppure da sfigurare violentemente per liberarsi del suo peso schiacciante.
Un fatto estremamente curioso, questo: perché, tra tutti i rifiuti di Pasolini, quello di essere padre è stato il più irremovibile. Scrive, infatti: “C’è, certamente, in me, una generale volontà a non essere padre (a non assimilarmi cioè a mio padre e ai padri in generale)”. E ancora: “Non ho mai usato una sola parola/ usata dai miei padri (eccetto per augurargli l’Inferno)”.
Pasolini prova un rifiuto così radicale dell’autorità che anche quando egli la esercita pretende di spogliarsene. Dichiara, esordendo con la sua rubrica il Caos: “Se una qualche autorità ho ottenuto, malamente, attraverso quella mia opera, sono qui per rimetterla del tutto in discussione. Questa rubrica non avrà – almeno nelle mie intenzioni – nulla di autorevole, e io non avrò nessuno scrupolo nello scriverla: nessun timore, intendo dire, di contraddirmi, o di non proteggermi abbastanza”.
Come un autore così sia diventato il più Padre di tutti Padri è un mistero della cultura italiana, o forse della sua psicopatologia. Di fronte a questo, c’è chi si fa prendere dalla tentazione di buttare il bambino (Pasolini) con l’acqua sporca (il pasolinismo). È necessario, invece, (ri)leggere Pasolini con intelligenza e spirito critico, smetterla di parlarne per sentito dire. Dai critici più feroci di Pasolini – Asor Rosa, Edoardo Sanguineti, il Gruppo 63, ma soprattutto il fraterno, indispensabile Franco Fortini – s’imparano più cose che da tutti i celebratori (o denigratori) postumi. Perché contestavano nel merito, l’opera di Pasolini: non discutendo la sua stupida icona pop, la faccia stampata sulla maglietta, come un Che Guevara della letteratura.
È diventato impossibile continuare a parlare di Pasolini se prima non si distingue l’autore dal racconto tossico che ne è stato fatto. Perché un conto è Pasolini, un altro è il pasolinismo. Una cosa è lo scrittore, un’altra la sua leggenda. E solo il ritorno alla sua opera può riscattare il chiacchiericcio intorno alla sua immagine. Mettendo il testo contro il pretesto. L’opera contro il mito. Pasolini contro Pasolini.