Nono Capitolo – Attentato in Vaticano

 
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Il giorno successivo i giornalisti e gli studi televisivi di mezzo mondo furono in subbuglio. L’opinione pubblica chiedeva di essere informata e la nazione, frastornata e confusa, non  capiva come dei fondamentalisti islamici terroristi, o per lo meno considerati tali dalla procura della repubblica romana, d’un tratto fossero stati scarcerati dalle patrie galere e lasciato la casa circondariale di Rebibbia perché non erano stati raggiunti da un quadro indiziario di elevata probabilità di colpevolezza.

Il presidente Mario Amato del tribunale del riesame di Roma aveva annullato, per mancanza di gravi indizi di reità, le ordinanze di custodia cautelare in carcere emesse dal giudice delle indagini preliminari  dottor Molinari, ordinando la remissione in libertà di tutti gli indagati, se non detenuti per altra causa. La notizia oramai era divenuta di dominio pubblico, e immediatamente fu ripresa con scalpore anche dalla CNN americana e dai principali mass-media nazionali ed esteri. La sostituto procuratrice era tesa, esterrefatta; due lacrime di rabbia le si asciugarono sul viso, mentre di buon mattino se ne stava seduta nella scrivania del suo ufficio di piazza Clodio, aspettando la notifica delle motivazioni dalla cancelleria del tribunale del riesame.

Nell’attesa snervante, il tempo scivolò lentamente. Un’innaturale intuizione di percezione della verità l’avvertì che l’indole la portava comunque a battersi. Decise di continuare a lavorare senza tregua contro la presunta cellula di Al Qaida in Italia, convinta della fondatezza della pista investigativa, frustrata dall’insuccesso, però mitigato dallo scampato pericolo.

Concentrata sul lavoro mattutino, pensò che avrebbe raccolto indizi sopra indizi per ogni terrorista, fino a inchiodarli uno ad uno alle loro responsabilità, dimostrando a se stessa ed a Fabrizio che l’indagine era assolutamente fondata e sarebbe approdata in un rinvio a giudizio.

Lei e il procuratore capo, intanto, quella sera erano invitati a  “Porta  a Porta”, trasmissione televisiva  al top di Rai Uno, principale rete nazionale. Invito che giorni prima era stato concordato da Bruno Vespa,   storico conduttore giornalistico dell’emittente televisiva con il dottore Gaymonat in persona, a prescindere dall’esito del ricorso in discussione al tribunale della libertà, il cui esito era stato dato per scontato, dunque difficile da disdire. La giudice lavorò sino alle ore venti, poi raggiunse il suo appartamento vicino il palazzo di giustizia, da poco preso in affitto. Si portò nella camera da letto e lì aprì l’armadio, dove visionò il suo guardaroba, scegliendo il vestito da sera e griffato da indossare.

Si spostò nella camera da bagno e fece una veloce doccia. Lì si truccò, e pettinò con una sapiente spazzola i suoi  ricci e lucidi capelli dalle leggere sfumature rosse. Dopo, si portò nuovamente nella cameretta da letto, calzò dei collant francesi e indossò della biancheria intima di pizzo veneziano, bianco e merlettato, che a lei piaceva molto, indossando anche l’abito scelto, dal colore azzurro tenue che le restituì la grazia ed il candore di sempre che la lunga ed insonne notte aveva solo scalfito, mettendo in risalto i lineamenti del viso e gli occhi blu. Completò il suo abbigliamento con i due orecchini di zaffiri, anche questi blu, ed un paio di scarpe bianco panna con il tacco a spillo che la slanciava donandole lo charme e la freschezza; poi uscì dall’appartamentino, dando con la chiave le mandate alla porta d’ingresso, entrando infine in ascensore per  scendere a piano terra e raggiungere la portineria, dove Dario impaziente era intento ad aspettarla. 

Non appena fu dentro l’ascensore le squillò il cellulare. Dario l’avvisava del ritardo. La invitò a scendere giù, a fare presto. “Sto scendendo”, rispose la donna, per poi raggiungerlo nell’androne del palazzo in un batter d’occhio, a passo veloce. “Andiamo, l’auto di servizio è pronta: alle ventuno e quaranta siamo in diretta. Gli studi televisivi della Rai sono a Cinecittà e gli invitati appena una decina”, osservò l’uomo, comunicando la sei ansie anche alla donna.

“E’ presente anche il signor ministro della giustizia e ti informo anticipatamente che  in studio avrai una sorpresa”. “Lo sai che  a me piacciono le sorprese e sono una curiosa”, gli disse, fermando il passo e cercando il dialogo. “Presumo che si profilino degli ambiziosi traguardi professionali”, intuì lei sorridente, guardandolo negli occhi. “Qualcosa del genere, mia dolce e impertinente collega”, le ammiccò con un sorriso sorretto da uno sguardo che rivelava pensieri che lo conducevano lontano.

Dario per la prima volta si era rivolta a Lorella chiamandola dolce e impertinente, in realtà la trovò ancor più intrigante, bella e affascinante dei giorni passati. Di giorno in giorno per Dario la dottoressa Alfieri era più luminosa e solare, e nonostante gli impegni professionali, lo stress dell’operazione “ambasciata americana” e i suoi sviluppi, riusciva ad essere sempre una donna di classe, facendosi da lui guardare, mozzandogli il fiato. Gli occhi della donna erano di un azzurro intenso, simili al blu dell’oceano ma più chiaro, e i suoi lunghi capelli avevano un’acconciatura di stile, accuratamente pettinata. Era alta poco più di un metro e sessantacinque centimetri, aveva una linea esile e quella sera il tacco a spillo la sfilava, sembrando un’elegante studentessa universitaria, dal giovanile aspetto. Avviandosi verso l’autovettura con il procuratore della repubblica, lei si aspettò che le desse maggiori dettagli su quanto anticipatole. Dario quasi si sentì colpevole di averle chiesto di accompagnarlo nel talk-show serale. Eppure, la donna iniziava ad impadronirsi dei suoi pensieri e richiedeva delle attenzioni.

“Penso che sia giusto anticiparti che il signor ministro della giustizia, su invito del presidente del consiglio, stasera ti proporrà in diretta nazionale di occupare l’incarico di magistrato dell’ufficio legislativo dell’ONU a Vienna”, disse l’uomo, vestito in abito da sera. Lei parve sorpresa dalle parole di Dario, ma pregustò immediatamente gli onori della proposta dell’incarico, illuminandosi nello sguardo e elargendogli un sensuale sorriso.

In fondo, quel traguardo era anche merito del procuratore che profondeva tutte le sue energie per l’ufficio da lui condotto e per l’avvenente sostituto. Gli replicò istintivamente, con la voce calda e decisa: “Se mi sarà proposto un simile incarico, accetterò di corsa, non lasciandomelo scappare”. Il merito, osservò, era anche del capo, al quale augurò ambiti riconoscimenti, quali la direzione di una superprocura che avesse la giurisdizione penale su tutto il territorio italiano e si occupasse della prevenzione e repressione dagli attacchi terroristici. “E credo che non avremmo scelta”, chiosò lei su di giri. “Tu in Italia, io a Vienna, a coordinare l’attività legislativa ed esecutiva con gli altri organi del governo nazionale e internazionale, al fine di garantire la sicurezza del nostro paese”, concluse  sorridente la ragazza, con l’aria felice e con  le braccia aperte verso il cielo, quella sera stellato e luminoso. Dario chinò il capo in segno di sì. Lei si rappresentò e presagì  i successi professionali, a discapito dei colleghi immeritevoli,  e degli uomini che non avevano creduto in lei.

“Bene, allora non rischi nulla”, commentò lui con un sorriso e con lo sguardo avido, desiderando di abbracciarla a sé, congratulandosi con l’affascinante collega, esitando però a farlo. Mentre conversavano lungo il marciapiede della strada antistante  l’ingresso esterno del portone del palazzo della donna, li raggiunsero gli uomini della scorta, che con discrezione invitarono i due magistrati a salire sull’autovettura blindata, e meno di quindici minuti a sirene spiegate furono avanti gli studi televisivi dell’emittente che li ebbe come ospiti a Cinecittà, insieme ad alcune personalità politiche e del mondo dello spettacolo. Alla fine del programma televisivo, nel quale i procuratori apparvero dei giganti contrapposti all’avvocato Fabrizio Berti che aveva diplomaticamente declinato l’invito di Bruno Vespa, Lorella scoprì che una cena prima della mezzanotte era stata organizzata dalla presidenza del consiglio dei ministri a Villa Pamphili e Dario sarebbe stato il suo cavaliere, seduta nientemeno a tavola vicino al delegato per il medio oriente del segretario generale dell’ONU, che intrattenne con l’affascinante giudice un’amabile, interessante e cordiale conversazione politica.

Fu una serata dolce e deliziosa, accompagnata da musiche d’autori classici che la proiettarono idealmente già a Vienna, come implicitamente anticipatole dallo stesso signor ministro della giustizia nel corso del precedente  e serale dibattito televisivo. Il delegato non perse tempo a rivolgerle con discrezione la parola, conversando brillantemente, divertendola anche con una serie di aneddoti che erano di moda negli ambienti diplomatici internazionali sulle caratteristiche fisiche del presidente degli Stati Uniti, del presidente della Russia e del primo ministro italiano che, se fossero usciti dalla mano di Walt Disney, avrebbero rubato certamente il mestiere alla famosa banda dei fratelli Bassotti e, considerate le loro fortune e  gli immensi patrimoni familiari, forse anche allo zio Paperon de’ Paperoni. Lungo il tavolo scorreva del fine spumante italiano e fiumi di sorrisi.

Quanto a Dario, questi provò una timida gelosia nei confronti dello sconosciuto delegato che gli rubava l’attenzione della donna. Lorella, molto intuitiva, si sentì prodiga a rivolgersi al collega, iniziando a trascurare il diplomatico per il resto della serata, come se si fosse data un implicito ordine di scuderia. Lei era grata al suo capo, per lui  sentiva di fare qualsiasi sacrificio. “Domani cosa pensi di fare, Dario?”,  domandò la ragazza, mentre dei camerieri servivano al tavolo ove erano seduti lo spumante e i prelibati piatti della cucina italiana. Sapeva che l’indomani il procuratore nell’agenda personale aveva segnato un appuntamento con il direttore generale degli affari penali, e che in parlamento vi fossero dei progetti di legge in pentola che avrebbero condizionato la politica giudiziaria. “Non lo so. A dire il vero mi sento stanco. Forse ho dato molto al mio lavoro. Lascio agli altri il compito di curare i rapporti con il potere esecutivo e legislativo. Credo che presto lascerò la magistratura e mi ritirerò a vita privata, nel mio chalet sulle Dolomiti, a scrivere libri e poesie per le generazioni future, o a dipingere su tela dei quadri. Sai, da giovane ho dipinto per anni e credo di essere un discreto pittore: organizzerò una galleria d’arte e presenterò i miei migliori lavori; oppure lavorerò per una holding, quale addetto alle relazioni pubbliche, nella direzione degli affari interni. In effetti  – osservò –  ricevo sempre delle offerte da società sia internazionali che a partecipazione pubblica: prima o dopo accetterò”.

“Hai del talento e la possibilità di esercitare altri incarichi prestigiosi e di responsabilità, carissimo Dario, ma per adesso il tuo posto è qui, alla procura della repubblica di Roma e al servizio del tuo paese”, gli ribadì, orgogliosa del collega che per lei era come un padre, ammirato e ricercato da tutti gli operatori giudiziari del tribunale capitolino per le grandi competenze professionali e umane dimostrate in più di trent’anni di servizio. “E poi, io credo che starò ancora a Roma:  ho bisogno di te”. Il procuratore capì che la ragazza si riferiva alla sua collaborazione professionale, ma nella mente gli balenò l’idea che la collega forse iniziava a provare verso di lui dell’affetto. Pensò anche di osare a corteggiarla. In fondo, oltre ad  essere una donna affascinante, era libera e sola.

Dario era conscio, invece, di essere intelligente e serio, maturo ed aperto al dialogo, consapevole che l’attesa fosse la migliore amica e sua consigliera. Quella sera, però, al tavolo ebbe un rivale molto più giovane e attraente, il diplomatico francese dell’ONU che sottilmente e con classe ritornò a corteggiare la ragazza, offrendosi, alla fine della cena, di accompagnare a casa l’affascinante giudice. All’invito galante, lei sorrise, rispondendo cortesemente di no, poiché il collega già si era prenotato. Dario fu galvanizzato  a sentire la provvidenziale decisione che spiazzò l’intruso e gli offrì l’occasione di trascorrere la fine della serata con l’affascinante donna.

Erano oramai quasi le tre del mattino e l’uomo con il suo autista e la scorta accompagnò la ragazza sotto casa, conversandole amabilmente,  riempiendola di adulazioni, invitandola ad essere se stessa ed a sfoggiare la sua femminilità. “Al ricevimento sei stata la donna più ammirata; il diplomatico francese ti ha corteggiato spudoratamente, e tutti gli invitati guardavano il nostro tavolo, verso di te”. “Dovresti sapere che non mi interessano gli uomini”, gli obiettò. “Sono tutti uguali; dicono di amare, invece amano solo se stessi e il piacere. Io voglio vivere da sola”, replicò decisa, mentre l’autovettura rallentò la sua corsa, in prossimità dello stabile nel quale Lorella da poco si era trasferita. Il procuratore sperò per un attimo che gli dicesse di salire su in casa, a bere l’ultimo bicchiere di buon spumante, ma lei lo salutò, ringraziandolo della bellissima giornata passata insieme, dicendogli che era stato un ottimo cavaliere e pronto a lottare con l’intruso, del quale asserì di non ricordare neppure il nome. L’uomo scese dall’autovettura e immediatamente si portò sul lato posteriore opposto, ad aprirle la portiera; lei lo salutò con un bacio sulla guancia, ringraziandolo di nuovo per la squisita serata, augurandogli la buona notte. Dario rispose gentile al saluto e ammutolì, vedendola entrare nel portone e sparirvi dietro. Salì in macchina e ordinò all’autista di accompagnarlo a casa. La scorta lo seguì discreta come un’ombra. Anche lui era stanco, dopo una giornata massacrante, conclusasi con l’amaro in bocca.

Si rimproverò di non essere stato temerario con la collega, eppure lei gli voleva bene e ne era consapevole, ma si trattava di un voler bene come ad un amico, alla persona cara, non ad un uomo per il quale si provano dei sentimenti o delle forti emozioni. Dario invece si sentì virile ed iniziò a desiderarla con tutto se stesso, come se ne fosse pazzamente innamorato. L’esperienza l’aveva aiutato a spiazzare il suo vero rivale, Fabrizio, presentandolo agli occhi dell’effervescente  collega come un giovincello, bravo ed inesperto, professionale ma arrogante, riuscendo nel suo intento di farglielo allontanare. Ora lui era stato vicino alla meta, bastava lamentarle che non gli andava di tornare a casa, dove viveva nell’inferno, che era solo ed aveva voglia di bere un bicchiere di liquore, farsi da lei invitare su, in appartamento, e confessarle di essere pazzamente innamorato.

Durante la serata o in ufficio non aveva trovato il coraggio di dirglielo. “Beh, domani di nuovo la vedrò al lavoro”, pensò. “Sono sicuro che, lentamente, inizierà a interessarsi di me, e forse ad amarmi. E’ questione di tempo.” Giunto mezz’ora dopo davanti la lussuosa villa sull’Appia antica, nella quale viveva da anni, salutò il suo autista e gli uomini della scorta, attraversò veloce il parco di querce secolari e di pini antistante il prospetto centrale dell’edificio illuminato a giorno salendo poi una delle due scale esterne che conducevano all’ingresso della veranda della sontuosa casa, infine entrò nel salone e nella penombra vide la moglie seduta con lo scialle sulle gambe, vicina al fuoco del camino acceso,  che   lo aspettava  anche se erano le prime ore del mattino e sembrasse notte fonda.

“Mio caro, sei tornato? Ti ho atteso come sempre”. La voce della donna era fievole, piena di amore, ma l’affetto coniugale del marito era sparito da anni, scomparso dai suoi sentimenti: rinfacciò alla compagna di non disturbarlo. “Lasciami in pace, per piacere”. Suonava terrificante alla signora sentirsi dire quelle parole che, di giorno in giorno, da mesi, da anni, la ferivano indelebilmente, lentamente e sempre più, ricordandogli l’indifferenza del marito e la sua incapacità a separarsi da lei pur di non rinunciare alla vita agiata che gli assicurava il patrimonio del suocero. La moglie era l’unica figlia di uno dei più ricchi costruttori di Roma, proprietario di catene alberghiere e uno degli editori più famosi della capitale. Il vecchio suocero, di ottantasette anni, a Dario gli aveva voluto bene come il figlio maschio mai avuto, ma l’arroganza del genero, la disaffezione che questi aveva mostrato alla moglie sin dai suoi quarant’anni, l’avevano costretto ad essergli distante e duro, a non coinvolgerlo nella gestione del patrimonio delle sue aziende, minacciandogli privatamente di diseredarlo nel caso di una separazione legale. Nonostante ciò, aveva lasciato alla figlia il comodato dell’esclusiva villa seicentesca dallo stile rinascimentale, piena d’affreschi e di ricordi, circondata da un giardino ricco di fontane e da un parco secolare con abeti, querce e pini, permettendole di abitarvi con il marito come se fossero i veri padroni.

In fondo, Dario era il padre dei suoi nipoti e il marito dell’unica figlia, alla quale era assicurata anche una rendita mensile non indifferente.

Gli anni però non gli avevano mitigato il carattere.  Dario Gaymonat amava da sempre il gioco d’azzardo nei casinò di mezza Europa, e ogni fine mese, con la scusa di recarsi a riposare nella sua esclusiva villa montana sulle Dolomiti, si portava invece a Venezia, a Saint Tropè, oppure a Montecarlo, accompagnato dall’elegante escort lady di turno oppure da un’avvenente, ultima conquista. Circostanze che il magistrato era riuscito a mantenere segrete con molta discrezione, ma che tanti anni prima il suocero ebbe  a scoprire grazie ai servigi di un suo investigatore privato, però non comunicate nemmeno alla figlia per il buon nome dei Costanzo e della professione di Dario, integerrimo giudice togato e distinto intellettuale,  così come era stimato negli ambienti di Napoli e della Roma bene, sedi giudiziarie nelle quali egli era stato in servizio od era tra i più un apprezzati servitori dello Stato. La signora Costanzo, ai suoi tempi, era stata una delle donne più ammirate dell’alta borghesia e della nobiltà di Roma, e negli anni settanta da Prati, Trastevere o Testaccio, non c’era uomo al quale ella non piaceva, ma il marito l’aveva sedotta con il suo stile semplice, la fine ironia, l’intelligenza non comune: ora le rinfacciava di essere una vecchia, decadente signora, mentre egli desiderava avere con sé una moglie giovane ed avvenente, infliggendole le vessazioni e le torture psicologiche che da vent’anni la povera donna sopportava per amore, solo per amore.

Ultimamente il marito nel silenzio quotidiano delle mura domestiche le gridava di sentirsi perseguitato da una compagna con la quale, pur non essendovi più del sesso e poca affezione coniugale, inutilmente l’aspettava ogni sera fino al suo ritorno, a qualunque ora, preoccupandosi della sua salute o del suo umore. “Sì sono tornato a casa”, le rispose, e avvicinandosi al camino le gridò se avesse sentito quello che le rinfacciava, tenendo un bicchiere di scotch whisky in mano, guardandola con lo sguardo feroce, simile ad un cane levriero. Iniziò ad agitarsi, ad aumentare il tono della voce come altre sere, infierendo su di lei, accusandola di avergli rovinato la vita, distrutto l’esistenza, dicendole di odiare anche se stesso, di essere un vigliacco che non trovava il coraggio di andarsene di casa e di lasciare i suoi figli, anche se oramai adulti ed in città noti professionisti, conviventi con i genitori nella lussuosissima ed immensa villa seicentesca dell’Appia antica,  ritirati a quell’ora nei loro appartamenti privati.

“O forse speri che mio padre muoia?”, gli disse la signora con il cuore e la voce spezzata,  guardandolo piena di pietà, seduta impassibile, cercando di instaurare il dialogo, credendo nel miracolo. “Sìiiìì”, lui le rispose, avvicinandosi chino e cinico al viso della donna, ghignando, lasciandola allibita,  gesticolandole avanti la mano destra con la quale teneva il bicchiere, facendo cadere sul pavimento parte dell’alcol precedentemente versatovi, consapevole di potersi sfogare sulla povera compagna  senza essere ascoltato da orecchie indiscrete o essere visto da occhi estranei, senza che alcun giudice l’avrebbe giudicato e condannato per le meschine ossessioni, padroni della sua anima. Dario sperava nella morte del cavaliere Costanzo, ma questi, nonostante i suoi ottantasette anni e gli acciacchi sempre all’ordine del giorno, non tirava le cuoia, lasciando finalmente questo mondo e l’immenso patrimonio mobiliare ed immobiliare, mai messo a disposizione del genero al quale rimproverava la perfidia. “Me ne frego di quello che pensi o provi.  Voglio dirti la verità, mia cara”, le ghignò ancora una volta, spalancando gli occhi lucidi ed una bocca imperiosa. “A me interessa succedergli, essere ripagato di quello che lui da giovane  mi ha promesso ed io non ho mai avuto”, le ribadì, conquistando l’apparente ragione, precedentemente offuscata da fumi di alcol.

Lei, seduta nel suo dondolo di rovere, davanti al camino che bruciava la legna e riscaldava il salone, lo guardò fisso e ricordò in lacrime, singhiozzando con la voce spezzata, che un tempo il suo Dario era  un uomo diverso, gentile, cortese, fine ed aristocratico, nonostante le sue umili origini. Invece ora era un cane pronto a mordere, attaccato alla sua bottiglia di fine scotch whisky, che in poco tempo, come ogni notte e dopo il suo ritorno a casa, lui  svuotò, riducendolo in pessime condizioni, stendendosi intontito su uno dei cinque divani dell’immenso salone, per poi essere accompagnato a letto dalla paziente e premurosa compagna, oramai non più giovane e forte, che lo aiutò, anche quella notte fonda, a svestirsi ed a mettersi a letto, simile ad una madre che protegge  il  proprio bambino,  debole e indifeso.

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