“Leonessa”, sei condanne confermate in appello: “Ma non era un’organizzazione mafiosa”

 
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Brescia. Condanne confermate ma anche i giudici della Corte d’appello di Brescia hanno escluso la sussistenza di un’organizzazione mafiosa, che per gli inquirenti avrebbe messo radici in Lombardia. E’ stato emesso il dispositivo di secondo grado, per sei imputati, coinvolti nella maxi inchiesta “Leonessa”. La condanna era già stata pronunciata dal gup bresciano, al termine del giudizio abbreviato. I coinvolti sono accusati di aver avuto un ruolo importante nel gruppo che avrebbe fatto riferimento soprattutto al consulente Rosario Marchese, già condannato in primo grado insieme ad altri imputati (che non hanno scelto il rito abbreviato). Non sono stati accolti i ricorsi dei difensori ma neanche quello della procura bresciana, che invece chiedeva di rivedere la decisione del gup e di riconoscere l’esistenza dell’associazione mafiosa. I magistrati della Corte d’appello hanno ribadito la decisione di primo grado ed escluso che gli imputati abbiano fatto parte di un clan, capace di esportare nell’hinterland bresciano gli stessi metodi dei gelesi. In questo filone processuale, sono imputati Roberto Raniolo, Francesco Scopece, Salvatore Sambito, Luca Verza, Giuseppe Tallarita e Giuseppe Nastasi. Le condanne confermate vanno fino ai cinque anni e otto mesi di detenzione disposti per Raniolo. Era già stato assolto per due contestazioni di estorsione e non è stato ritenuto capo del gruppo. Con la decisione appena emessa, nei suoi confronti è stata revocata la detenzione in carcere. Su richiesta del difensore, l’avvocato Stefano Tegon, gli sono stati concessi i domiciliari. La procura generale, invece, oltre a concludere per la conferma delle condanne di primo grado, aveva indicato il riconoscimento dell’associazione mafiosa.

Si attenderà il deposito delle motivazioni, per l’eventuale ricorso in Cassazione. Ad inizio maggio, il collegio penale del tribunale di Brescia ha disposto la condanna di undici imputati, tutti coinvolti nella stessa inchiesta. La pena più pesante, a sedici anni e un mese di reclusione, è stata pronunciata per Marchese, ritenuto vero ideatore del sistema milionario delle compensazioni tributarie illecite, che ha determinato la condanna anche per i sei in appello. I giudici del collegio, a loro volta, non hanno riconosciuto l’esistenza dell’organizzazione mafiosa, che secondo i pm della Dda avrebbe invece sfruttato i fondi illeciti per sviluppare attività in Lombardia e non solo.

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