Tra i nomi noti dello spettacolo che hanno tifato per Valentino Rossi fino all’ultima curva, c’è anche Cesare Cremonini. Come riporta il Corriere della Sera, il cantautore ha scritto una lettera indirizzata a Marc Marquez:
Tornati a casa da Valencia, la rabbia e la delusione cercano di addormentarsi insieme alla razionalità. Ma non è facile. Le domande sorpassano le risposte in un groviglio di dubbi e convinzioni, ma una su tutte supera il traguardo: cosa ci ha insegnato questo campionato del mondo di MotoGp? Punto primo. Sapevamo che Marc Marquez voleva (e vorrà ancora) essere il «nuovo» Valentino Rossi, ma si è giocato per sempre questa possibilità. Forse lo spagnolo non ha ancora compreso che lo sportivo più forte è quello capace di subire anche le sconfitte più dolorose e rialzarsi, di tornare al lavoro e giorno dopo giorno riconquistare la vetta. Se lo cerchi, Marc, lo trovi sotto la voce «Valentino Rossi».
Il «biscottone iberico» è l’esatto contrario, è qualcosa che ridimensiona il valore sportivo del ragazzino spagnolo dal sorrisetto facile. Il suo stile di guida spettacolare e combattivo, che abbiamo visto e ammirato fino a ora, è improvvisamente scomparso dalla pista durante le ultime gare di quest’anno: quando si rifarà vivo, e succederà, tornerà a dargli meriti ma renderà, allo stesso tempo, ancora più grande l’impresa di un Valentino per lui, a questo punto, irraggiungibile. Un Valentino capace di costringere gli avversari a un’alleanza inedita che, non fosse avvenuta, gli avrebbe consegnato il decimo titolo mondiale.
La seconda cosa che abbiamo scoperto, e credo sia la cosa più preoccupante, è che la MotoGP corre il rischio di non essere più la stessa. La scelta di correre non per vincere, non per la propria dignità né per i tifosi, e nemmeno per dare un segnale di affidabilità alla Honda, ma con la sola intenzione di non far vincere un altro campione in piena lotta per il titolo, è figlia di una nuova tipologia di «sportivo» fino a oggi sconosciuta. Una selezione geneticamente alterata di pilota da corsa, quasi infallibile ma fallato che, per qualche ragione, non troppo difficile da comprendere, è riuscita a piantare radici, proliferare e vivere da campione nello stesso ambiente dei campioni. Questo però senza nutrirsi dei valori fondamentali dello sport in generale ma soprattutto di questo sport, in cui si rischia la vita per un solo motivo: vincere.
Un’anomalia questa, arrivata a noi tifosi sotto forma di travestimento riuscito, tanto ingenuo nelle interviste dopo gara, quanto morboso in pista. Dico morboso perché credo sia questa la «malattia» di cui si è ammalato Marquez. Perdonatemi l’amara ironia, ma io me lo immagino il piccolo Marc perdere il controllo. Eccolo, da solo nella sua stanza, con il poster di Valentino appeso alle pareti, quello stesso poster che ostentava con tanta dolcezza, dicendo di averlo attaccato da giovanissimo sopra il letto e che ora, in una lenta deriva grottesca, finisce in brandelli, calpestato, scarabocchiato. Prima i baffi, il dente nero, poi le corna, quindi le croci sugli occhi disegnate con la matita della frustrazione, poi coperto di insulti, e infine accartocciato e gettato nel cestino, ma ancora presente nella sua mente.
Ma lo immagino così, Marc che cerca disperatamente di fuggire da quell’insopportabile sorriso leggero e consapevole il cui copyright è di Vale, sia che vinca sia che perda, e che rappresenta l’Italia e il mondo che lo ama e che ama il nostro Paese. Riesco a immaginarlo mentre perde lucidità e cambia faccia, le sopracciglia contratte, le labbra appuntite. Eccolo diventare Joker, ecco la sua stima per il Dottore mutare in invidia feroce, ecco il duello sportivo degenerare in vendetta salvifica. Mors tua, Vita Mea. Ma il risultato non cambia, Marc: hai rubato questo decimo mondiale a Valentino consegnandolo a Lorenzo, ma non hai vinto la tua debolezza. Anzi, ce l’hai mostrata con inaspettata chiarezza. Lo hai ferito, è vero, ma gli passerà. Molto presto quel sorriso tornerà a farti sentire forte il suo messaggio: non sarai mai Valentino Rossi.