Genova. Versioni discordanti su quanto accadde, nel settembre di un anno fa, in un’abitazione
di Molassana, a Genova, dove venne ucciso il giovane Davide Di Maria.
L’omicidio. A processo, per quei fatti, ci sono anche Vincenzo Morso, da anni ritenuto referente di cosa nostra gelese proprio a Genova, e il figlio Guido. Quest’ultimo è accusato dell’omicidio di Di Maria, mentre il padre risponde di rissa aggravata, insieme ad altri due imputati, Marco N’Diaye e Christian Beron. Dopo l’apertura del dibattimento, davanti ai giudici della Corte d’assise genovese, in aula sono arrivati i primi testimoni. “Marco mi raccontò che Vincenzo Morso era rappresentante di una cosca mafiosa a Genova”, ha spiegato l’ex compagna di N’Diaye. Da quanto trapela, inoltre, lo stesso N’Diaye avrebbe commissionato l’acquisto di fascette da elettricista ad un amico.
Sui polsi di Di Maria, al momento dell’arrivo degli inquirenti nell’appartamento, venne accertata proprio la presenza di fascette. In base all’autopsia, il giovane, non ancora trentenne, sarebbe stato ucciso da una coltellata fatale. Non, quindi, dai colpi di pistola che comunque vennero sparati. Quella lama, però, non è mai stata trovata e i Morso hanno sempre ribadito di essersi recati nell’abitazione di Molassana armati solo di pistole.
Per gli investigatori, quell’incontro sarebbe dovuto servire a regolare un conto in sospeso, probabilmente un debito di droga. A questo punto, nelle prossime settimane, potrebbe esserci un confronto, in aula, tra i quattro imputati.