Gela. In aula, anche dai giudici della Corte d’appello di Caltanissetta, verranno
ascoltati i collaboratori di giustizia.
I collaboratori ancora in aula. Si rinnova, infatti, l’istruttoria dibattimentale, almeno su alcuni aspetti, del giudizio scaturito dalla maxi inchiesta antimafia “Tetragona”. In primo grado, arrivarono condanne per quasi settant’anni di detenzione. Gli investigatori ritennero di aver individuato un gruppo capace di gestire gli interessi di cosa nostra non solo in città ma anche al nord, soprattutto in Liguria e Lombardia. Non sarebbe mancata neanche una vasta attività estorsiva. Diversi imprenditori avrebbero versato denaro ai clan. In aula, saranno sentiti Rosario Vizzini e Angelo Bernascone. E’ stato chiesto l’esame anche di Davide Nicastro, che comunque non fa più parte del programma per i collaboratori di giustizia.
I verdetti di primo grado. In primo grado vennero pronunciati cinque verdetti di assoluzione. Per due collaboratori di giustizia, Rosario Trubia e Nunzio Licata, venne pronunciato il “non doversi procedere” a seguito dell’estinzione dei reati contestati. L’assoluzione fu decisa per Pietro Caielli, Claudio Conti e Sebastiano Pelle. La pubblica accusa, invece, chiedeva un totale di quarantaquattro anni di reclusione. Erano accusati di aver preso parte ad un vasto giro di droga, sia sulla tratta che conduce nella provincia di Varese che su quella calabrese. Le condanne più pesanti, invece, furono pronunciate per Emanuele Monachella, Armando D’Arma, Salvatore Burgio e Aldo Pione. A Monachella, difeso dall’avvocato Giacomo Ventura, venne riconosciuta l’appartenenza al clan di cosa nostra, attivo soprattutto a Genova, oltre alle presunte estorsioni ai danni dell’imprenditore edile Emanuele Mondello. Così, alla condanna a 3 anni e 6 mesi si aggiunse quella a 10 anni e 6 mesi. Per Armando D’Arma, il collegio pronunciò la condanna a 3 anni e 6 mesi e quella a 8 anni e 6 mesi. Stando ai magistrati della Dda avrebbe preso parte al giro d’estorsioni controllato dai clan locali. L’appartenenza a cosa nostra venne riconosciuta all’anziano geometra Salvatore Burgio.Il professionista, difeso dall’avvocato Antonio Gagliano, fu condannato a 9 anni di reclusione. Il legale di difesa aveva categoricamente smentito in aula che lo studio del geometra fosse diventato la “cabina di regia dei clan locali per la gestione delle estorsioni e degli appalti”. 9 anni sono stati inferti anche ad Aldo Pione, difeso dall’avvocato Nicoletta Cauchi. I magistrati lo ritennero il collegamento strategico tra la provincia di Varese e il boss Gino Rinzivillo che faceva base a Roma. 8 anni e 6 mesi di reclusione per l’ambulante Giuseppe Piscopo, accusato di aver sottoposto ad estorsione i titolari di due supermercati a Caposoprano e Scavone. Il suo legale di fiducia, l’avvocato Boris Pastolrello, invece, sottolineò come l’attività dell’imputato si limitasse solo allo spaccio di droga, autonomo da qualsiasi appartenenza a cosa nostra. 3 anni, ancora, per Nunzio Cascino; 2 anni e 6 mesi per il collaboratore di giustizia Fortunato Ferracane; 3 anni e 6 mesi, a testa, per Angelo Greco e Giuseppe Truculento; 1 anno e 6 mesi per l’altro collaboratore Orazio Marcello Sultano; 4 anni e 4 mesi di reclusione, infine, per Alessandro Farruggia, ritenuto coinvolto nella tentata estorsione ai danni del gruppo imprenditoriale gestito dai fratelli Brigadieci. Pronunce assolutorie arrivarono per gli stessi condannati ma rispetto ad altri capi d’imputazione. Nella maggior parte dei casi, venne riconosciuta la continuazione con precedenti sentenze di condanna. Tra le parti civili costituite, il Comune, Confindustria, la Federazione antiracket nazionale, l’associazione “Gaetano Giordano”, con l’avvocato Giuseppe Panebianco, l’imprenditore Emanuele Mondello, rappresentato dal legale Vittorio Giardino, e i titolari dei supermercati presi di mira, ovvero Nunzio Di Pietro e Cristoforo Infurna.