Gela. La coerenza per cercare di limitare l’impatto sociale prodotto dai circa cento operai dell’indotto Eni rimasti fuori dalla produzione.
A chiederla è il segretario della camera del lavoro Ignazio Giudice. Coerenza, soprattutto, legata al rispetto del protocollo siglato, praticamente un anno fa, dagli stessi sindacati e dalle istituzioni locali.
“Certo che ci vuole coerenza – spiega Giudice – mi chiedo, ad esempio, come facciano Confindustria e Legacoop a mantenere fra i loro associati imprenditori che, all’interno della fabbrica Eni, non rispettano i patti sottoscritti dai loro stessi rappresentanti. I tavoli prefettizi contano ancora qualcosa?”.
Il sindacalista, quindi, lancia l’allarme davanti ad una stasi che ha colpito un accordo presentato con toni trionfalistici e che, a dodici mesi di distanza, dimostra buona parte dei suoi limiti.
“Che fine hanno fatto gli impegni assunti in quella sede? – si chiede ancora Giudice – cento lavoratori attendono ancora risposte insieme alle loro famiglie. Ma qualcuno si rende conto che in questa città il tasso di disoccupazione sfiora il 42%!”.
Se molti rimangono fuori dalla fabbrica Eni: altri, invece, sono sottoposti ad orari di lavoro sempre più lunghi.
“Questa è l’incoerenza principale – conclude il segretario della camera del lavoro Cgil – gli imprenditori impegnati con le loro aziende nell’indotto dovrebbero prendere atto che la mole di lavoro può tranquillamente essere suddivisa, consentendo anche ad altri operai di rientrare tra gli impianti”.