Gli affari dei Trubia, la plastica era “roba” loro: tensioni nella famiglia, “quello deve morire!…”

 
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Gel. A Mignechi, Bulala e Spina Santa, la plastica era off limits.
Il presunto capo lavorava in un negozio a Caposoprano. A gestire le fasi di raccolta tra le aziende agricole della zona e del successivo deposito dovevano essere solo i Trubia. Minacce, intimidazioni ed esplicite richieste di “non lavorare” perché oramai “c’erano loro” sarebbero state recapitate ad almeno una decina di piccoli raccoglitori e ad altrettanti imprenditori, titolari di aziende serricole e non solo. Il presunto monopolio scoperto a conclusione del blitz “Redivivi” passava tra le mani dei fratelli Vincenzo e Nunzio Trubia e di Davide Trubia, fratello di Rosario, ex reggente di cosa nostra e oggi collaboratore di giustizia. Chi non si adeguava alle pretese di quelli che vengono considerati esponenti di spicco del nuovo clan, organizzato tra i poderi e le serre, subiva intimidazioni anche faccia a faccia. Gli inquirenti, durante le indagini coordinate dai magistrati della Dda di Caltanissetta e dai dirigenti di polizia Marzia Giustolisi e Francesco Marino, hanno appurato come il gruppo avesse a disposizione pistole e fucili. Armi che spesso sarebbero state utilizzate proprio per intimorire i potenziali concorrenti nella raccolta della plastica oppure gli imprenditori agricoli che non volessero adeguarsi alle loro richieste. Tutto, comunque, sarebbe passato dalle decisioni del quarantaquattrenne Vincenzo Trubia, ritenuto il vero capo del clan mafioso. Dopo aver lasciato il carcere, e per il tramite di un’autorizzazione, lo stesso Trubia iniziò a lavorare in un negozio di piante e fiori nella zona del cimitero monumentale di Caposoprano. Proprio all’interno di quell’attività commerciale chi cercava spiegazioni si recava per incontrarlo. Così, fece anche uno dei raccoglitori di plastica ai quali era stato intimato di fermare qualsiasi attività nelle zone sotto il controllo proprio dei Trubia.

L’affare dei centri di stoccaggio della plastica. Il sistema scoperto dagli inquirenti non si basava solo sulla semplice raccolta della plastica dismessa dalla serre. I Trubia avrebbero stretto un vero e proprio patto economico con i titolari di almeno due centri di stoccaggio. In sostanza, la plastica veniva depositata, dietro compenso, solo nei centri gestiti dai “soci” in affari dei Trubia che, allo stesso tempo, riuscivano a praticare prezzi del tutto fuori mercato per il resto della potenziale concorrenza. Non a caso, data la mole d’affari, i Trubia, ad un certo punto, temettero che i titolari dei centri di stoccaggio avessero intenzione di stringere un’intesa con i “Barbani”. Così erano chiamati i raccoglitori riconducibili alla famiglia Minardi.

“Deve morire…”. Ma la possibile concorrenza non era solo esterna. Ad un certo punto, i rapporti iniziarono ad essere tesi soprattutto tra Nunzio Trubia, fratello di Vincenzo, e il trentatreenne Davide Trubia che gestiva l’affare della plastica e delle guardianie proprio per conto del gruppo. A Nunzio Trubia venne imputata l’eccessiva autonomia rispetto alle decisioni del clan. Per Davide Trubia quel “bastardo” di Nunzio “doveva morire”. Diversi esponenti della famiglia temevano che si potesse addirittura arrivare ad impugnare le armi per risolvere la contesa. Al cinquantacinquenne Nunzio Trubia veniva imputata anche “l’onta” di aver dato il benestare al ritorno in attività di un gruppo di raccoglitori di plastica, stretti parenti di chi, solo nove anni prima, aveva attentato alla vita di due fratelli di Davide Trubia, uno dei quali morto a seguito delle ferite riportate dopo essere stato raggiunto da diversi colpi di pistola. Non solo plastica e guardianie imposte agli imprenditori, il gruppo Trubia avrebbe messo le mani anche sul mercato della droga servendosi di piccoli fornitori e, addirittura, cercando di avviare piantagioni illegali proprio nelle aree rurali sotto il loro controllo.

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