Facebook non è interessato al tuo sgomento per la tragedia di Parigi ma ai tuoi dati personali

 
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Vi ricordate lo scorso giugno? Con una sentenza storica la Suprema Corte americana dichiarò legali i matrimoni omosessuali. Per “festeggiare” l’evento, Facebook offrì agli utenti la possibilità di usare una applicazione che rendeva “arcobaleno” la loro immagine del profilo. Milioni di persone seguirono il suggerimento: ad usarla, precisamente, furono ventisei milioni di utenti. Come si conosce questo numero? Semplice: è stato lo stesso Facebook a renderlo pubblico ad ottobre.

Con questa semplice informazione Facebook ci ha fatto sapere qualcosa che appare scontato ma non lo è per niente. Ovvero che aveva registrato quei dati sui di noi nelle sue banche dati, li aveva conservati, li aveva analizzati. Ma perché? Perché conservarli? “Si tratta di un nuovo studio su di noi?” si è chiesto il The Atlantic. Poteva essere una risposta possibile. Ma non l’unica. Martina Pennisi sul Corriere della Sera ha fatto notare che quelle informazioni “sulle nostre preferenze sessuali” rappresentano un pezzo prezioso del puzzle a beneficio degli inserzionisti pubblicitari. Quelle informazioni che avevamo fornito volontariamente, insomma, potevano servire a Facebook per venderci meglio la pubblicità. Sì certo, nessuno era stato obbligato a rendere arcobaleno la sua foto profilo. Ma nessuno al contempo, aveva pensato che Facebook potesse avere degli interessi concreti quando ci invitava a usare la sua applicazione arcobaleno.

Coi cadaveri ancora caldi nelle strade di Parigi dopo la strage di venerdì sera, Facebook si è mossa ugualmente velocemente. Questa volta ha proposto un’applicazione che ci dice chi, tra i nostri amici, si trova a Parigi e quali tra questi hanno comunicato al social network di stare bene. È innegabile che in alcuni casi questa applicazione sia potuta servire. Eppure presenta anch’essa due lati oscuri. Il primo è che Facebook ci informato su chi si trovava a Parigi senza chiedere il permesso ai singoli utenti: chiunque si trovasse nella capitale francese veniva segnalato agli amici, anche quando non aveva in nessun modo dichiarato la sua posizione. Il caso limite è quello di un mio amico, Davide. Facebook mi continuava a dire che Davide era a Parigi ma “Non aveva ancora fatto sapere che stava bene”. L’ho contattato personalmente, allora, è mi ha spiegato che lui a Parigi non c’era, sarebbe dovuto partire giovedì ma alla fine aveva perso il volo ed era rimasto a casa. “Facebook mi legge nel pensiero?” mi ha chiesto. Non proprio. Evidentemente Facebook presumeva che Davide fosse a Parigi in base ai Big Data raccolti su di lui.

Il secondo lato oscuro di questa applicazione va individuato nel suo effetto indiretto ma non per questo meno rilevante. Me l’hanno segnalato vari amici sul social network. Ovvero il fatto che la decisione di informarci sulla condizione di tutti i nostri amici a Parigi, amplifica il fragore degli attentanti, mette in allerta mezzo miliardo di persone: anche solo lanciare quella applicazione si rileva una pressione psicologica reale, anche se non richiesta. È lecito questo? È lecito che lo decida Facebook? E allora perché non informarci sugli attentati di Beirut? E quali eventi sono più gravi? E chi stabilisce una gerarchia di urgenze?

Neanche il tempo di porsi queste domande che Mark Zuckerberg lancia un’altra applicazione. Questa permette di colorare la propria foto profilo con i colori della bandiera francese. È un invito, che chiunque può accettare o meno. Ma ancora una volta è un invito che ci condiziona. Era successa la stessa cosa lo scorso aprile, in seguito ad un terremoto in Nepal. Allora Facebook pubblicò su molti profili un tasto “donate”che invitava a fare una donazione a favore delle vittime del terremoto. A prima vista sembrava una causa nobile. Eppure cliccando sul tasto non si veniva indirizzati al sito della Croce Rossa, o di qualche organizzazione no profit, ma ad una particolare sezione di Facebook detta “money”. Qua si era invitati a lasciare i dati della propria carta di credito. Qual era lo scopo allora? Aiutare il Nepal o avere una scusa per ottenere i dati della carta di credito degli utenti?

Facebook è così pervasivo nella nostra vita, che a volte lo consideriamo una sorta di istituzione, una Ong. È una multinazionale orientata al profitto invece, quotata in Borsa per un controvalore di 320 miliardi di dollari. Dovremmo ricordarcelo sempre. Anche quando vogliamo esprimere il nostro sgomento per una tragedia immane, che ci lascia turbati e con poche certezze.

http://www.huffingtonpost.it/federico-mello/facebook-applicazione-tragedia-parigi-_b_8572824.html?utm_hp_ref=italy

 

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