La dottoressa Lorella Alfieri era adirata con se stessa e con il mondo intero.
Le sue amiche e le colleghe l’avevano informata della nuova relazione di Fabrizio Berti, e non c’era un momento nella Roma bene ed all’interno del palazzo di giustizia a piazza Clodio nel quale i conoscenti, i dipendenti o gli avvocati non parlassero della pericolosa relazione, spettegolando sulla fine della storia d’amore tra la giudice poliziotto e l’avvocato penalista.
Ascoltare dagli altri colleghi e dagli amici di averlo visto passeggiare, mano nella mano, con una bellissima donna tra le vie della capitale, in via del Corso, in via Condotti oppure vicino le stradine adiacenti alla fontana di Trevi, era una notizia sconvolgente, dura da digerire; e nonostante la giudice replicasse loro che non le importasse nulla, dentro il suo animo i sentimenti le si sgretolarono in una miriade di pezzi, dei quali fu difficile raccoglierne i cocci.
Lorella, quella mattina, non ebbe nemmeno la forza di rispondere con decisione alle battutine, e alla dottoressa Gaia Ripamonti, che la informò della certezza del pettegolezzo, le si rivolse con il sorriso adirato e le labbra secche, quasi disidratate.
Dopo il dialogo con la collega toscana, decise immediatamente di recarsi nella stanza del procuratore capo che la calmò, l’ascoltò attentamente, e la invitò, con lo sguardo dolce e comprensivo, a dimenticare il suo amore e di andare avanti.
Fabrizio Berti era stato un uomo immaturo e per la voglia di sfondare, di raggiungere l’ambito traguardo professionale di vedersi revocate le ordinanze di custodia cautelare in carcere a carico di ben nove assistiti, accusati di terrorismo internazionale e sui quali erano state puntate le telecamere di mezzo mondo, s’era giocato la sua donna, come uno sbandierato frequentatore dei casinò e delle sale da gioco d’azzardo.
Lorella però non era sicura di quello che le disse il suo capo.
Era cosciente che il suo Fabrizio, quello antico, non fosse un uomo avido di successi e di denari.
“E’ solo un testardo, impertinente”, considerò.
Per un momento, si domandò se le ipotesi di Dario non fossero prevenute ed avessero un qualche interesse personale a colorare di nero il giovane avvocato, ma non c’erano motivi a dubitare della buona fede del procuratore che le era vicino, buon amico e cavalier servente.
“Mi piacerebbe ritornare subito a lavorare e gettarmi in un’inchiesta che non lascia il tempo di pensare a me stessa”, gli comunicò decisa.
Dario, seduto dalla sua scrivania, le rispose di non preoccuparsi; l’inchiesta “ambasciata americana” non era chiusa, anzi presto ulteriori sviluppi sarebbero nati e, per Dio, degli assassini sarebbero stati assicurati alle patrie galere; così la rassicurò e le giurò.
Colse anche l’occasione per anticiparle che era suo il caso giudiziario delle imminenti indagini a carico di un gruppo di bigotti vip e sciatti borghesi romani dediti ad organizzare party il sabato sera ed a sniffare cocaina a ritmo di sesso e musiche hard.
Chiamò l’interno della collaboratrice della segreteria penale, e le ordinò di consegnare alla collega il fascicolo trentacinque del modello ventuno.
Mezz’ora dopo, la donna era già nel suo ufficio a visionare gli atti, ma il pensiero di Fabrizio le ritornò alla memoria come un’ossessione.
Si sentì sola, catapultata in un torbido labirinto dalla quale non riuscì a uscire.
I suoi pensieri erano solo sull’avvocato Berti, che non si era più fatto sentire e non le aveva inviato, a natale o a capodanno, nemmeno l’accademico sms di auguri.
“Che rabbia, a pensarci bene”, sentenziò.
Conoscendolo, poi, provò della gelosia a pensare che fosse tra le braccia di un’altra donna, e per di più di un’avvenente straniera.
“Grrr… li ammazzerei”, sbottò.
Dentro rodeva con il groppo in gola.
Iniziò a provare la sensazione di navigare in un vortice, totalmente sola, come se l’ufficio e il suo lavoro non le importassero più nulla o non fossero più al primo posto nella sua vita.
Mai aveva provato quel sentimento che ebbe il sapore della gelosia, mai era stata vulnerabile e indifesa come quel giorno.
Chi l’avrebbe protetta?
“Ah, se avessi di fronte la mia rivale”, simulò in sé.
Certamente le avrebbe spiattellato una sequela di parolacce e l’avrebbe invitata a tornarsene a quel paese, nelle bianche distese siberiane.
Lorella, seduta sulla scrivania, piegò su se stessa i gomiti delle braccia e contrita si mise le mani in faccia, come se volesse coprirsi gli occhi e impedirne a qualcuno la vista.
Cominciò a singhiozzare, fino a lasciarsi andare in un fiume di lacrime, strozzando il suo pianto nell’invettiva su Fabrizio, definendolo un “maledetto stronzo” che l’aveva dimenticata.
“Sei un’egoista ed egocentrico, ma la pagherai cara”, singultì.
Squillò il telefono dell’ufficio.
Era Dario che, scusandosi dell’invadenza per la telefonata, si dichiarò preoccupato di averla lasciata carica di lavoro; le consigliò che non era il momento giusto di buttarsi a capo fitto sui nuovi procedimenti penali e sulle indagini preliminari pendenti.
Lorella rispose con un grazie, confermandogli che corrispondeva al vero che non fosse il giorno adatto per lei; era meglio però sfogarsi parlando dei suoi problemi.
Dario ne raccolse le confidenze, iniziando con la sua voce matura a consolarla con dolcezza, facendole coraggio ad andare avanti.
Il procuratore si dichiarò anche debitore della giovane collega.
Lei alcune settimane prima l’aveva aiutato nei momenti personali difficili, ora era l’ora di ricambiarle la solidarietà e l’affetto, standole vicino.
Parlarono a lungo al telefono, e lui chiese se fosse possibile raggiungerla nella sua stanza.
“Desidero rivederti, parlarti guardandoti negli occhi”, le sussurrò nella cornetta del telefono.
Lei accettò quell’offerta.
Passarono appena due minuti che l’uomo suonò il campanello esterno della porta blindata posto sul corridoio della stanza della sostituto procuratore.
Dall’interno della sua stanza lei vide sul monitor della telecamera che era il suo capo: senza esitazione gli aprì.
L’atmosfera era silenziosa, gli occhi della ragazza lucidi come se poco prima avesse pianto a dirotto e le sue guance erano rosse, provate.
Il procuratore con mani studiate si avvicinò, continuando a consolarla, ad esortarla che da quel giorno lei doveva vivere per se stessa, di non piangere la perdita di un uomo insensibile e immeritevole.
Istintivamente, si portò dietro la scrivania della donna e con il braccio destro l’abbracciò, sussurrandole che le sarebbe stato vicino, pronto a sostenerla in ogni evenienza, ed esserle amico.
“Ti sono vicino. E’ così”, le confermò.
E nonostante l’uomo fosse pieno di desiderio, la collega apprezzò quell’abbraccio, come se fosse quello di un vero amico o di un padre; i singulti di Lorella si spensero e lei lo guardò negli occhi neri.
Dario, continuando a tenerla vicino a sè, la rassicurò ripetendole che lui era lì, e non andava via fin quando lei non fosse serena.
“Ci sono io qui con te.
Ti voglio bene; stai tranquilla”.
Le sembrò deciso, determinato, sicuro.
La donna scosse la testa, in segno di sì e di una ritrovata sicurezza. Smise di piangere, e si asciugò le lacrime.
Da anni aveva imparato a lottare.
Era sopravvissuta alla separazione con Manlio, Fabrizio s’era rivelato un’egoista e, dopo la lite, questi non aveva avuto nemmeno il coraggio di chiamarla al telefono, di correrle dietro gridando il suo amore: capì che era giunto il giorno che mai più avrebbe pianto per un uomo.
In fondo, aveva sempre dichiarato che tutti gli uomini fossero uguali e tendono a imporsi alle donne.
Manlio era stato solito sottovalutarla, facendola sentire inerme, strappandole eterna riconoscenza per le amicizie influenti che a suo dire le mise a disposizione, cancellando sistematicamente tutte le resistenze e le obiezioni della moglie.
Lei era stata la sua preda; docile e indifesa.
Fabrizio l’aveva portata via da quell’inferno subdolo, per dimostrarsi poi uno di loro, un uomo cinico e spietato
All’apparenza capace di sacrificarsi per amore della sua donna, ma alla prima occasione pronto a tradirla, voltandole le spalle, trincerandosi in una richiesta di rispetto dell’onore professionale e di una dignità inesistente.
“Invece il collega è un vero gentiluomo”, pensò.
Le mostrava un sentimento di affetto, come ad una figlia, oppure a un’amica alla quale nel pericolo era necessaria una spalla sulla quale appoggiarsi e piangere, dandole la sua forza incondizionatamente, per farle ritrovare poi su quella spalla la certezza di cambiare ed essere forte.
“Voglio aiutarti”, disse deciso alla donna, la quale ammirò la compostezza morale del collega, simile a suo padre che da bambina la rassicurava nelle incombenze della vita di ogni giorno, proteggendola dai pericoli, coccolandola tra le sue braccia.
“Fabrizio è un maledetto egoista”, disse Lorella con voce isterica e di stizza, infiammata da una gelosia difficile da spegnere e controllare.
“Se mi avesse amata, oggi non girerebbe nelle strade della capitale con una lurida sgualdrina.
Per due anni mi ha completamente preso in giro, offrendomi carezze, moine e baci, strumentalizzandomi; ed io, sottomessa, ne facevo un idolo, lo adulavo, lo definivo come il mio eroe, dal carattere dolce e forte.
Oggi ho la consapevolezza che egli ha amato solo se stesso; diversamente non andrebbe così presto a spassarsela in città con un’altra donna.
Mi dicono pure che sia felice… Grrr…
Che vada a quel paese; non merita i miei ricordi e il mio rispetto.
Sarò l’unica dei due a rispettare il nostro passato, ricordando i bei momenti vissuti insieme, di gioia e d’amore.
Lui però sarà cancellato”
Dario, visibilmente soddisfatto, la rassicurò di vederla decisa e sulla giusta strada, invitandola a sfogarsi, a gettare lontano quell’inquietudine che la sconvolgeva.
“Debbo completamente dimenticarlo”, sentenziò con lo sguardo duro e pieno di odio, ritornando come un fiume in piena a valutare i fatti.
“Prometto a me stessa che, d’ora in poi, mai più la mia bocca pronuncerà il suo nome”.
Il tempo trascorse nella stanza senza alcuna dimensione; e in quel giuramento solenne Lorella non fu nemmeno conscia se fossero passati delle ore, solo pochi secondi o alcuni minuti.
Le parve incredibile essere riuscita a passare da un sentimento tenero di amore ad uno di odio violento, dalla disperazione cupa che le adombrava l’anima alla decisione irreversibile di avere un cambiamento radicale contro l’uomo che aveva amato, oramai sconosciuto e da demolire.
“Gli dimostrerò chi sono” digrignò.
Dario la fissò sgomento, provando un attimo di imbarazzo a vederla così piena di rabbia, diversa dalla donna che aveva sempre conosciuto.
Non avrebbe voluto essere dall’altra parte della barricata; si sentì vicina a lei e questo lo ripagava.
Era l’occasione di cogliere il primo passo e starle vicino, farle capire quanto le volesse bene.
La sua strategia di far breccia nel cuore della donna gli fu evidente: bastava starle accanto e, al momento opportuno, quando lei avrebbe gettato lontano il suo odio, cercando la protezione ed il coraggio per andare avanti, desiderosa di affetto, amore e protezione, egli sarebbe stato lì, vicino a lei.
“Adesso so quello che voglio”, pensò ad alta voce Lorella.
“Magari l’unico sentimento che l’avvocato Berti non tollera è quello dell’odio…
Ne avrò da vendergli!
Ma tu non ti preoccupare, mio dolce angelo custode”, pronunciò la ragazza con gli occhi lucidi e il sorriso amaro, rivolgendosi al collega che si dimostrava premuroso e preoccupato.
“Tu mi sei stato vicino; per te provo un sentimento di affetto, vero e autentico”.
Dario si sentì consolato a sentire quelle parole calde a lui rivolte; però sapeva che lei gli si rivolgeva come ad un amico e non erano le parole sensuali di una donna che aveva un interesse intrigante.
La desiderava con tutto il cuore; quello però non era il giorno per comunicarglielo.
“Beh, adesso smetti di meditare, di lanciare le invettive e mettiti al lavoro”, obiettò l’uomo, come se fosse ritornato sui suoi passi nel consigliarle di staccare un poco, mentre s’indirizzò verso l’uscita della stanza e aprì la porta guardando un’ultima volta verso la sua sostituto e spronandola con il tono gentile, quasi di incoraggiamento.
“Sì, grazie”, gli rispose di rimando.
Il procuratore si era comportato come un padre, e in lei la gratitudine cresceva; la sua solidarietà era sincera, e quando l’aveva abbracciata, lei ebbe a sentire il suo calore e l’affetto.
Il collega era stato da giovane un bell’uomo ed ancora s’intravedeva la sua forza virile, la gioia degli anni migliori.
Dario per lei era così buono, generoso ed altruista.
Istintivamente, capì che quell’uomo poteva darle più di un giovincello o di un mestierante egocentrico, quale si era rivelato Fabrizio.
Si sentì protetta, finalmente rispettata nelle sue idee, amata per la donna che era.
Decise dunque che il tempo le avrebbe dato delle risposte.
Dario era lì, pronto all’ascolto, sereno ad aspettarla.