Centro bibite dato alle fiamme, Cassazione conferma la condanna di uno dei gestori

 
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Gela. Un magazzino per la vendita di bibite, in centro storico, fu dato alle fiamme. Anche i giudici di Cassazione hanno confermato la responsabilità di uno degli allora gestori, l’esercente Vincenzo Famà. Insieme al fratello, Francesco Famà (per lui negli altri gradi di giudizio pena sospesa), era già stato condannato a due anni di reclusione. I giudici di Cassazione non hanno accolto il ricorso della difesa. Da quanto emerso, furono i due esercenti ad appiccare le fiamme, per incassare il premio assicurativo. Inizialmente, venne presentata anche una denuncia di furto, ma in realtà i poliziotti del commissariato accertarono che non ci fu alcun atto di questo tipo. Le immagini dei sistemi di videosorveglianza della zona vennero usate per ricostruire la dinamica dell’accaduto. Nell’arco di pochi minuti, i due avrebbero chiuso l’attività e le fiamme iniziarono a divampare. Secondo gli inquirenti, nessun altro avrebbe avuto il tempo necessario per entrare e appiccare l’incendio. Tesi invece contestata dalla difesa, che ha sempre escluso la responsabilità degli imputati. In base alle accuse, l’incendiò servì ad avere le somme del premio assicurativo, visto che l’immobile danneggiato era di proprietà della moglie di uno dei fratelli. “La sentenza impugnata ha dato atto che, incontroversa la natura dolosa dell’incendio – si legge nelle motivazioni della sentenza di Cassazione che richiama le pronunce dei giudici di merito – la ricostruzione della tempistica porta senza ombra di dubbio alla responsabilità del ricorrente, assieme al fratello, nella realizzazione dell’incendio”.

Gli approfondimenti partirono dopo alcune verifiche della compagnia assicurativa, che è stata parte civile nel procedimento penale. Furono i responsabili della compagnia Sara assicurazioni ad autorizzare la costituzione di parte civile nel procedimento. Gli esercenti finiti a processo per i fatti del centro bibite, alcuni anni dopo denunciarono pressioni e minacce, confluite nell’inchiesta antimafia “Stella cadente”, che consentì l’arresto dei presunti estorsori, ritenti affiliati alla stidda.

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