Gela. I fatti che gli venivano contestati nell’inchiesta antimafia “Compendium” risalgono ad almeno diciassette anni fa. Quello dell’imprenditore quarantacinquenne Claudio Lo Vivo è stato un lungo percorso giudiziario che si è concluso con la seconda sentenza emessa sul suo caso dalla Corte di Cassazione che ha chiuso l’intero procedimento con l’annullamento senza rinvio. E’ stata accertata la prescrizione dell’unico capo di accusa che ancora pesava sulla sua posizione. Lo Vivo, secondo quanto ricostruito dai pm della Dda di Caltanissetta, avrebbe fornito armi agli Emmanuello, mettendole a disposizione di Fortunato Ferracane, da anni ormai collaboratore di giustizia. Una conoscenza, quella con l’allora esponente del clan, che gli costò la pesante accusa e una condanna che venne rivista al ribasso in appello. Già con una prima decisione la Cassazione aveva disposto di rivedere l’entità della pena decisa dalla Corte d’appello di Caltanissetta, che però con sentenza emessa lo scorso anno praticamente confermò il primo verdetto, a quattro anni e dieci mesi di detenzione. Secondo i pm e i giudici nisseni, l’imprenditore quarantacinquenne, che per anni ha lavorato fuori dalla Sicilia, avrebbe avuto la consapevolezza che le armi cedute sarebbero finite nella disponibilità del clan. L’aggravante di aver favorito Cosa nostra ha rafforzato il convincimento degli investigatori, messo però in discussione dalla difesa dell’imputato, sostenuta dall’avvocato Vittorio Giardino. Con un primo ricorso, in parte accolto dalla Cassazione, e la decisione bis della Corte d’appello che invece confermò la condanna, la difesa ha proposto una nuova azione davanti ai giudici romani, questa volta trovando accoglimento. Nelle motivazioni, che sono state pubblicate, i magistrati romani accettano la tesi del legale sull’assenza di un vero e proprio dolo.
Così come spiegato nel ricorso, in appello ci sarebbe stata una valutazione non idonea rispetto alle intenzioni di Lo Vivo, che secondo la difesa non ha mai avuto alcun collegamento criminale con i clan. Il difensore ha nuovamente spiegato che l’imprenditore non sostenne mai i piani criminali del gruppo Emmanuello, neanche rispetto alle armi. Una ricostruzione che i giudici di Cassazione hanno avvalorato. “La prova del dolo specifico, nei termini sopra enunciati, resta ancora affidata al mero richiamo ai rapporti di lunga durata tra le parti, al comune contesto di provenienza ed alla caratura criminale del cessionario delle armi – si legge nella sentenza pubblicata – ritenuta tale da giustificarne la notoria appartenenza del medesimo al clan Emanuello; siffatti generici elementi, oltre ad essere pedissequamente reiterativi di quelli già ritenuti inadeguati, non risultano neppure circostanziati mediante il riferimento a specifici profili dotati di attitudine dimostrativa”. La prescrizione ha però assorbito ogni altro punto e per Lo Vivo si chiude una vicenda processuale iniziata oltre un decennio fa.