Novara. Il suo corpo venne ritrovato nei pressi di un capannone in disuso, nei boschi di Pombia in provincia di Novara. Il trentatreenne Matteo Mendola sarebbe finito in una trappola tesagli da chi già conosceva. Per il suo omicidio, negli scorsi mesi, sono stati condannati i presunti esecutori materiali. Il gup del tribunale novarese ha imposto trent’anni di reclusione ciascuno ad Antonio Lembo e Angelo Mancino. Per il giudice hanno ucciso il gelese, che da tempo ormai viveva con tutta la famiglia a Busto Arsizio. A dare l’ordine, invece, sarebbe stato l’imprenditore edile Giuseppe Cauchi, a sua volta gelese trapiantato in Lombardia. Il dibattimento nei suoi confronti è stato aperto a fine gennaio e questa mattina sono arrivati in aula i primi testimoni. Sono stati sentiti davanti ai giudici della Corte d’assise di Novara. Alle domande del pm e dei legali di parte, hanno risposto i carabinieri intervenuti sul posto ma anche i sanitari del servizio 118 e il medico legale che effettuò gli accertamenti sul cadavere. Mendola venne raggiunto dai colpi di un’arma da fuoco e finito con un cric per auto. Lembo, dopo l’arresto, ha ammesso di averlo ucciso, sostenendo che l’ordine sarebbe partito da Cauchi. Dietro alla fine del trentatreenne ci sarebbero presunti interessi legati agli ambienti criminali della provincia di Varese, dove da decenni è presente una folta comunità gelese.
I legali dell’imprenditore cinquantatreenne, gli avvocati Flavio Sinatra e Cosimo Palumbo, escludono qualsiasi rapporto tra i due e quindi mettono in discussione l’eventuale coinvolgimento dell’imputato nell’omicidio. I familiari della vittima sono parti civili, in giudizio con i legali Giancarlo Trabucchi e Anna Maria Brusa. Dopo aver fatto luce in aula sul ritrovamento del cadavere, toccherà ad uno dei carabinieri che avviò l’inchiesta arrivando ad individuare le dinamiche dell’intera vicenda. Verrà sentito nel corso della prossima udienza.