E adesso si legga il romanzo

 
1
Immagine della presentazione della produzione Rai "Il nome della Rosa".

Gela. Lunedì 25 marzo la Rai ha trasmesso l’ultima delle quattro puntate della serie tv tratta da “Il nome della rosa” di Umberto Eco (1980). Sin dalla prima puntata, come c’era da aspettarsi, sui media e sui social i telespettatori si sono divisi tra denigratori ed entusiasti, ovvero, per riprendere le due famose espressioni echiane, tra “apocalittici” e “integrati”. I primi, legati alla bellezza e alla complessità del romanzo (e talvolta anche alle atmosfere cupe del film del 1986 di Jean-Jacques Annaud), hanno gridato allo scandalo soprattutto per le infedeltà e le banalizzazioni della sceneggiatura, mentre i secondi hanno apprezzato la regia, le interpretazioni degli attori, la ricostruzione degli ambienti, ecc. Tutto secondo copione.
Alcuni commentatori entusiasti, però, forse sbagliano nel sottolineare una cosa che solo in linea di principio è giusta. Non v’è alcun dubbio che un’opera filmica debba essere giudicata sulla base di criteri estetici coerenti con il linguaggio per immagini su cui essa si basa. Qualcuno arriva persino a sostenere, non senza ragione, che non bisognerebbe mai fare alcun riferimento al testo letterario di partenza per giudicare una trasposizione filmica. Ad esempio, per capire in quanto opere cinematografiche in senso stretto “Apocalypse Now” di Coppola o “Eyes Wide Shut” di Kubrick non serve a nulla tenere davanti a sé, rispettivamente, “Cuore di tenebra” di Conrad e “Doppio sogno” di Schnitzler. È una tesi dibattuta che ha dietro di sé sottili questioni estetiche e semiotiche, sulle quali non è qui possibile addentrarci. Nel caso in questione, però, abbiamo a che fare con una produzione che esplicitamente, per bocca soprattutto del regista Giacomo Battiato e dell’attore protagonista e co-sceneggiatore John Turturro, dichiara di aver voluto restare fedele il più possibile al romanzo di partenza, al fine anche di rimediare alle ben note infedeltà del film di Annaud, il quale tuttavia poté contare sulla presenza di Eco sul set (una cosa, questa, che spesso si dimentica o si sottovaluta). Bisogna allora accettare la sfida e vedere se davvero le promesse vengono mantenute, fermo restando che va detto tutto il bene possibile dell’enorme lavoro che sta dietro questa serie “evento”, come è stata definita dal paratesto promozionale che l’ha accompagnata.
Chi volesse soffermarsi sul risultato strettamente televisivo-cinematografico ha molto di cui discutere, dalle prestazioni diseguali degli attori (per esempio: sono ugualmente efficaci il Remigio da Varagine di Fabrizio Bentivoglio e il Salvatore di Stefano Fresi?) alla credibilità degli ambienti e dei costumi, dalla fotografia al ritmo narrativo, per non parlare dei personaggi aggiunti ex novo (la figlia di Dolcino e Margherita, una specie di “superdonna di massa”, per dirla con una nota formula dell’Eco studioso dei meccanismi consolatori propri del romanzo popolare). Se poi questa serie riuscisse ad avvicinare al romanzo le nuove generazioni, cui essa sembra destinata per stile e linguaggio, sarebbe un valore aggiunto. Il film, negli anni Ottanta, ci riuscì, come possono testimoniare molti cinquantenni e sessantenni di oggi.
Come si diceva, però, si vorrebbe raccogliere la sfida e provare a fare dei piccoli test di fedeltà, dal momento che la serie non dichiara di essere una riscrittura sul palinsesto del romanzo (come si presentava il film di Annaud già nei titoli di testa), ma come un’opera capace di restituire fedelmente il testo scritto. La mia tesi è che, anche laddove la serie pretende di seguire pedissequamente il romanzo, essa rimane persino al di sotto della semplice interpretazione letterale del testo, cadendo pure in fraintendimenti imbarazzanti. Mi soffermerò in particolare su due momenti, uno iniziale e uno finale.

Brunello, perché sei brunello?
Consideriamo l’episodio del cavallo Brunello, in cui Guglielmo da Baskerville dà subito prova delle proprie superbe abilità “holmesiane”. Com’è noto, Annaud non lo inserì nel film, e mi piace pensare che abbia fatto questa scelta su suggerimento dello stesso Eco, dal momento che nel romanzo si tratta di un passaggio tra i più stratificati sul piano dell’intertestualità e delle implicazioni logico-filosofiche, e la trasposizione cinematografica rischiava di impoverirlo e banalizzarlo. E infatti è esattamente questo che accade nella serie. Anzi, sembra proprio che gli autori non abbiano capito quasi nemmeno il significato letterale dell’episodio. Certo, Turturro-Guglielmo stupisce Bentivoglio-Remigio con la sua arguta abduzione basata sui segni lasciati sulla neve e tra i rami dei cespugli dal cavallo dell’abate in fuga, ma già solo il significato letterale dell’episodio nel romanzo richiede il ricorso ad “auctoritates” come Isidoro di Siviglia (per la descrizione del bel cavallo), Alano delle Isole (per la natura semiotica delle cose create da Dio) e Giovanni Buridano (per l’asino Brunello usato negli esempi di sillogismi nei suoi svritti di logica) per comprendere il funzionamento della mente di un dotto benedettino del tempo. In altri termini, sul piano puramente letterale in quel passaggio Eco stava sia facendo esibire il detective Guglielmo sia spiegando le strutture cognitive dell’uomo di cultura medievale, ma quest’ultima componente esplicita e basilare dell’episodio è praticamente assente nella trasposizione. Addirittura, la cancellazione del riferimento a Buridano spinge gli sceneggiatori a far dire a Guglielmo una sciocchezza linguistica colossale, ovvero che egli sia arrivato al nome “Brunello” attraverso l’aggettivo “brunus”, poiché neri sono i peli lasciati dal cavallo sul cespuglio. Questa etimologia inventata e del tutto gratuita, come si vede, costituisce un vero e proprio fraintendimento.
Nell’episodio del romanzo, poi, c’era anche altro, che però agiva da dietro le quinte. Tutto l’episodio, infatti, non era che una ripresa ironica e quasi letterale di un passo del terzo capitolo di “Zadig” di Voltaire e, come dimostra il saggio “Corna, zoccoli, scarpe: tre tipi di abduzione” (ricavato nel 1983 da due saggi scritti nel 1980 e nel 1981, cioè all’epoca dell’uscita del romanzo), rimandava a tutta la questione della logica dell’investigazione poliziesca, che per Eco è appunto di tipo non deduttivo (come pretendeva lo stesso Conan Doyle) ma abduttivo. Per non parlare di tutto il dibattito medievale sulla natura degli universali, che Adso e Guglielmo rievocano poco dopo tornando sull’episodio di Brunello.
Alla luce di tutto ciò, non pare esagerato affermare che, nella resa di questo episodio del romanzo, gli autori della trasposizione siano rimasti come minimo al di sotto persino del suo significato letterale di base. Una prova ulteriore è fornita dall’aggiunta di un rapido scambio di battute che serve ad anticipare la rivelazione sul passato da dolciniano di frate Remigio, che nel romanzo è spostata molto più avanti. Nel telefilm essa è non solo anticipata in generale nell’ambito dell’intreccio, ma è addirittura preparata nell’episodio di Brunello, perché Guglielmo, che ha un passato da inquisitore, ha l’impressione di aver già visto Remigio, ma questi, interpellato su ciò, nega seccamente di aver mai incontrato in passato l’illustre ospite. In tal modo il passo del romanzo, interpretato in senso men che letterale, acquista un significato del tutto diverso, e nemmeno particolarmente significativo, nell’economia della nuova narrazione.

Né Wittgenstein né Dio
Diamo un’occhiata al dialogo finale tra Guglielmo e Adso nella serie tv:

GUGLIELMO: “Era la più grande biblioteca della cristianità, ora l’Anticristo è davvero vicino, perché nessuna sapienza gli farà più da barriera. Abbiamo visto il suo volto”.
ADSO: “Non dovete rimproverarvi. Avete fatto del vostro meglio”.
GUGLIELMO: “Il meglio degli uomini, che è poca cosa. Dov’è la mia saggezza? Ho agito da testardo, perseguendo un’apparenza di ordine, ma avrei dovuto sapere che non vi può essere ordine nell’universo. L’ordine immaginato dalla nostra mente è come una rete, o una scala costruita per raggiungere qualcosa. Dopo di che, devi gettare via la scala, perché, per quanto sia stata utile, ora è priva di senso. Forse la missione di coloro che amano l’umanità è far sì che gli uomini ridano della verità, far sì che la verità rida”.
ADSO: “Tornerò a Melk e prenderò i voti lì. Poi girerò il mondo per cercare i libri e tramandarne le parole”.
GUGLIELMO: “Della bellezza, del colore e del profumo di una rosa, quando appassisce, solo una parola rimane: il suo nome”.

Per costruire questo piccolo dialogo tra il maestro e l’allievo, con cui si conclude l’ultimo episodio, gli sceneggiatori hanno assemblato delle frasi prendendole quasi tutte dalle ultime due-tre pagine del romanzo prima dell’ “Ultimo folio”; l’ultima battuta, invece,  costituisce una reinterpretazione creativa del celeberrimo esametro latino, attribuito al monaco benedettino del XII secolo Bernardo di Cluny, con cui nella finzione si concludono le memorie di Adso, e quindi il romanzo stesso: “stat rosa pristina nomine, nomina nuda tenemus” (e si noti che nel romanzo Guglielmo non parla mai né della rosa né del suo nome, anche se il verso citato in chiusura dal vecchio Adso riassume bene il nominalismo filosofico del suo antico maestro).

Ora, il problema è che questo dialogo – collocato lontano dall’abbazia e messo su con brandelli di testo pescati un po’ a casaccio da una conversazione tra i due protagonisti ben più ampia e articolata, che però nel romanzo si svolge nel pianoro dell’abbazia e nel corso dell’incendio che sta divorando tutti gli edifici – è di una banalità quasi oltraggiosa, e non coglie nemmeno lontanamente anche solo il livello letterale del testo. La prima battuta di Guglielmo e la parte finale della seconda (quella sulla verità e il riso) sono prese da un contesto in cui il maestro, all’inizio del dialogo, sta illustrando all’allievo il modo in cui l’Anticristo si è palesato sul volto di Jorge “devastato dall’odio per la filosofia”, sintesi di tutti i profeti invasati “disposti a morire per la verità”, i quali “di solito fan morire moltissimi con loro, spesso prima di loro, talvolta al posto loro” (si noti che questo passo mirabile nella serie viene anticipato inspiegabilmente in una non memorabile conversazione tra Guglielmo e Remigio sui dolciniani). La prima battuta di Adso e la prima frase della seconda battuta di Guglielmo, invece, sono prese dall’ultimo momento del dialogo, in cui si sfiora il sospetto abissale che Dio non esista, dal momento che ammettere contemporaneamente (con Occam, il filosofo reale amico del finzionale Guglielmo) l’assoluta libertà di Dio e la sua assoluta onnipotenza, ovvero “la sua assoluta disponibilità rispetto alle sue stesse scelte”, significa identificarlo con il “caos primigenio”, il che equivale a una sorta di dimostrazione della sua non esistenza. È un pensiero teologico terribile che affiora nella mente di Adso mentre sta ragionando sugli eventi insieme al maestro, ma i tempi non sono ancora maturi per il suo sviluppo e infatti poco dopo il crollo fragoroso di una parte dei tetti del dormitorio mette fine al dialogo.

Come si vede, questa parte pur letterale del dialogo originale finale non è stata nemmeno sfiorata dagli sceneggiatori, i quali si sono concentrati sulla parte che illustra la concezione strumentalista delle teorie umane sul mondo. Ma anche qui hanno dovuto sacrificare la parte più gustosa, perché Eco vi ha inserito un anacronismo che regala gioie inenarrabili ai lettori esigenti. La frase di Guglielmo sulla scala da buttare dopo il suo uso, infatti, nel romanzo è seguita da un misterioso passo in un tedesco opportunamente storicizzato, cui segue uno scambio su un non meglio precisato mistico austriaco. Eccolo nella sua interezza:

 

“L’ordine che la nostra mente immagina è come una rete, o una scala, che si costruisce per raggiungere qualcosa. Ma dopo si deve gettare la scala, perché si scopre che, se pure serviva, era priva di senso. Er muoz gelîchesame die Leiter abewerfen, sô Er an ir ufgestigen ist… Si dice

così?”.

“Suona così nella mia lingua. Chi l’ha detto?”.

“Un mistico delle tue terre. Lo ha scritto da qualche parte, non ricordo dove. E non è necessario che qualcuno un giorno ritrovi quel manoscritto. Le uniche verità che servono sono strumenti da buttare.”

 

Come nel caso di Brunello, qui Eco sta alludendo a un autore vissuto molti secoli dopo, e sarebbe stato  inutile infliggere al telespettatore questo livello di senso ulteriore del testo. Di conseguenza, il dialogo deve subire una mutilazione inevitabile, che porta via con sé la parte  più interessante del passo. Qui, infatti, Eco stava citando il passo sulla scala da buttare dopo l’uso che si trova verso la fine del “Tractatus logico-philosophicus” di Ludwig Wittgenstein, un’opera pubblicata nel 1921! Perché? Perché intendeva prendere in giro bonariamente un intero stile filosofico, che non a caso trovava le sue radici proprio nell’occamismo. Come spiega lo stesso Eco nelle “Postille” al romanzo, “tutto quello che personaggi fittizi come Guglielmo dicevano avrebbe dovuto esser stato detto a quell’epoca. Non so quanto sono stato fedele a questo proposito. Non credo di averlo disatteso quando mascheravo citazioni di autori posteriori (come Wittgenstein) facendole passare per citazioni dell’epoca. In quei casi sapevo benissimo che non erano i miei medievali a esser moderni, caso mai erano i moderni a pensar medievale”.

E dunque, per concludere, buona fortuna alla serie tv, che merita tutto il rispetto possibile per il grande sforzo di produzione che ha dietro di sé. Chi però volesse abitare veramente per un po’ di tempo nel mondo del “Nome della rosa” – per subirne tutto il fascino intellettuale e godersi i sottili giochi intertestuali che ne costituiscono la ragione ultima – farebbe bene a cimentarsi nell’impresa difficile ed esaltante della lettura del romanzo.

1 commento

  1. Non ho visto la serie TV, ma a proposito del film originale e delle doti investigative mi pareva già ai tempi remoti che affidarsi al fatto che le persone si avvicinassero alla latrina tutti contorti e che la lasciassero felici non fosse proprio una trasposizione particolarmente intelligente (!). Qualunque cosa è meglio.

LASCIA UN COMMENTO

Please enter your comment!
Please enter your name here