Ho ritrovato, dopo averlo ritenuto irrimediabilmente perduto, la brutta copia di un piccolo saggio su uno dei racconti di Silvana Grasso, facente parte della raccolta “Nebbia di ddraunara”, edito nel 1993 da La Tartaruga.
Non ricordo il motivo per cui, allora, non venne dato al giornale, ma so di certo che vi si possono riscontrare pregi letterari e psicologici di indubbio valore. Circa un anno dopo la pubblicazione di Nebbia di ddraunara, avanzammo un azzardo, considerando i racconti della Grasso la “cosa” veramente nuova nell’allora piatto panorama della narrativa italiana.
Diciamo subito che la prosa della Grasso non è per il lettore distratto, disinteressato al gusto estetico e poco avvezzo alla riflessione. La scrittrice è ispirata da un principio ribelle, anarchico, sempre teso a rifiutare codici e comportamenti preconfezionati e questo la porta inevitabilmente alla contrapposizione sul modo di vedere la realtà, alla manifesta teatralità, alla narcisistica consapevolezza dell’artista (con la benedizione di Eric Fromm). Il suo linguaggio mira a soppiantare le parole sconciate dall’uso, a ridare pregnanza e colore e spirito nuovo al discorso narrativo, a sostituirsi al linguaggio della trita convenzionalità e consuetudine retorica, a privilegiare la via della scarnificazione e della lapidaria essenzialità, oltre a quella consistente nel caricarla di tensione metaforica, nel dilatare di potenza il “numinoso” e “l’immaginoso”. Il suo “stile”, che le ha certamente richiesto un grande sforzo creativo, risponde a un imperativo interiore ed è latore di un messaggio chiaro: la vera arte deve rifuggire la banalità.
Ma una critica che si fermasse solo alla sfera linguistica, certamente la novità più importante espressa dalla Grasso, e non tentasse di scavare nel versante dei contenuti e dei significati, ora manifesti ora celati, non farebbe appieno giustizia del suo valore.
La Grasso ha voluto sbirciare la faccia nascosta, che inconsciamente tutti vorremmo che all’oscuro restasse, del pianeta uomo, la meno romantica, fatta soprattutto di degrado fisico, di dolore, di piscio e di odori nauseabondi, di posizioni di caratteri e di gesti estremi. Esattamente quella che è la vita di ognuno. Perché i sentimenti, l’odio, l’amore, non sono entità metafisiche, ma anch’essi si nutrono di corporeità. Grosso modo il sostrato filosofico che sottende l’opera della Grasso può essere sintetizzato nella massima: quasi mai la vita è quella che si è sognata e che tra il sogno e il desiderio da una parte e la realtà dall’altra c’è quasi sempre uno scarto notevole, a volte drammatico (vedi il racconto Venturina).
“Nebbie di ddraunara” dà il titolo all’intera raccolta. Immaginiamo perché l’architettura di questo racconto è ritenuto dalla scrittrice il più pregnante e convincente. Racconto complesso, questo, ricco di situazioni e di luoghi di un ieri appena passato, ma di cui si sente ancora l’eco, fatto di fantasia e di verità, dove l’una supporta e rincorre l’altra, a volte crudo a volte incantato; una finestra aperta su una società in cui le abitudini si nutrono di superstizioni, di sogni, di affannoso tendere al soddisfacimento di necessità vitali; e, a volte, a suo modo, grandioso se non addirittura epico.
Ma il racconto che mi ha maggiormente inquietato è “L’amante di Cicala”. Chi lo ha letto avrà magari provato sulle prime una sensazione di disagio, forse anche di disgusto. Ma crediamo che non si possa liquidarlo come qualcosa di “disgustoso” da rimuovere né relegarlo semplicemente nel genere grottesco e surreale. E’ necessario andare oltre ai soliti parametri della pura e semplice ragione e dei mezzi propri della letteratura.
Allora, brevemente, la trama. Sisinna Cicala, nata anzitempo perché la madre abortisce per lo spavento causatole dalla vista di un rospo, risulta essere piccola, alta appena cinque palmi, con un occhio storto e senza pupilla, con peli sul labbro superiore, il naso a chiodo, la pelle squamata, le unghie nere, il cranio a punta, i capelli radi e scoloriti. Come e per che cosa vive la Cicala? In solitudine e per ammazzare rospi e vendere preghiere. In questo modo, pare di capire, essa smaltisce l’odio contro la sfortuna e l’umanità in genere. Genialmente, la Grasso ci dice a metà racconto, quasi in maniera subliminare, che Cicala ha un amante. La conclusione del racconto si ammanta di un’amabile atmosfera di lirismo, che raggiunge il suo momento topico in una particolare notte. Essa, Cicala, fa ritorno a casa, stanca e logorata dagli anni; e, mentre cammina, sente i tipici rumori di quella notte provenire dalle case festosamente animate: il pensiero è per il suo amante, muto compagno di tutta la sua miserabile vita. Quella notte, la notte di Natale, nessuno l’ha invitata a tavola dinanzi ad un fumante cappone o ad una focaccia di salsiccia. Era, dice la Grasso, una notte di luna piena, ma Sisinna Cicala era sola, neanche un rospo da assalire per la protratta siccità. Ma c’era lui ad aspettarla. Ed ecco un’apparente assurdità. Era lì ad aspettarla e contemporaneamente le carezzava “i visceri” corti e magri. Chi è questo amante? Cinquanta centimetri di verme solitario! Lo ha portato con sé sin dall’infanzia ( terrorizzante è stata la sua scoperta) e tutte le volte che è diventato troppo lungo ne ha sistematicamente smaltito una parte nella bacinella di smalto, in attesa che ricrescesse, silenzioso e paziente, nelle sue viscere. La cosa che salta subito agli occhi e che si è di fronte a qualcosa che si ripete periodicamente e da tanto tempo. Lasciamo per un momento il racconto e cerchiamo di capire perché la parte considerata la più “schifosa”, la più “disgustosa”, costituisce, invece, un capolavoro di intuizione.
Tra le opere d’arte, quelle che maggiormente possono essere accostate al sogno sono quelle inerenti alla letteratura. Come a molti è noto, l’arte in genere e la letteratura in particolare, hanno trovato nella psicanalisi una importante chiave di interpretazione, la quale si serve del metodo tipico dell’interpretazione del sogno. Infatti, il sogno costituisce la via maestra per un tuffo nell’inconscio. Ma, per ovvie ragioni, non possiamo disquisire su questo metodo.
Allora… Anno 1914. Per la prima volta Freud fa capire che i due principi che regolano lo psichismo umano, il principio del piacere e il principio di realtà, non sono sufficienti per spiegare tutta la conflittualità umana. Brevemente, il principio del piacere è la tendenza psichica primordiale mirante al raggiungimento del piacere immediato e all’eliminazione del dolore. Il principio della realtà altro non è se non una modificazione del principio del piacere che tende agli stessi scopi, ma adattandosi alle condizioni imposte dal mondo esterno (il piacere immediato è tralasciato in vista di un piacere futuro più certo e soddisfacente). Sette anni dopo esce “Al di là del principio del piacere”, in cui Freud tira in ballo un altro principio: quello della “coazione a ripetere”. Egli ha constatato che lo psichismo umano è costretto, in determinante condizioni, a ripetere esperienze sgradevoli. L’uomo tende nelle fantasie e nei sogni a rappresentarsi ripetitivamente esperienze traumatiche per giungere a dominarle. Molto semplicemente, la “coazione a ripetere” è la tendenza a rivivere attraverso la ripetizione, gesti o azioni che hanno caratterizzato un periodo precedente nello sviluppo psichico dell’individuo. Questo processo è di origine inconscia ed è “incoercibile”. Il soggetto è costretto a ripetere vecchie esperienze senza ricordarsi del “prototipo”.
Se chiedessimo a Sisinna Cicala perché ripete quello che appare quasi un rito, certamente non saprebbe dare una’adeguata spiegazione. La Grasso dice, giustamente, che poi essa lo prese in affezione e noi sappiamo cosa vuol dire “affezione”, ossia “subire l’attacco di qualcosa che da noi non è voluto ma che da noi è subito”. Infatti, se fosse solo una cosa sgradevole, non si spiegherebbe, e fortunatamente la Grasso lo intuisce, allora perché Cicala ne buttava un po’ nella bacinella di smalto (quella buona con le rose, perché per lei è qualcosa d’importante) “non senza dolore” (ecco la ripetizione penosa, sgradevole eppure incoercibile). E siccome la “coazione a ripetere” tende a nascondere desideri e mira a compensare, perché non vedere nel fatto che Sisinna Cicala tiene al calduccio quell’amante nelle sue viscere il tentativo inconscio di una maternità impossibile? Parallelamente, un altro rito vede coinvolta la sacerdotessa Cicala. Essa è costretta alla sistematica e periodica decapitazione dei rospi nell’acquitrino, non perché spinta da un odio irriducibile nei loro confronti ( e qui c’è l’ovvio tentativo della scrittrice di esplicitare per esigenze di natura letteraria, e invece si attua clamorosamente il principio della “negazione” di Freud) ma perché la ripetizione di quegli atti le consente di aprire la valvola dell’angoscia e di dominare la paura. Questo racconto, e forse non solo questo, della Grasso merita di essere annoverato tra i piccoli gioielli della letteratura.