Quella che vedete in foto, in testa all’articolo, sono io. Sotto, ho i miei capelli rossi di cui curo con attenzione che la tonalità sia quella che piace a me e li ho tutti perché sono sana, non faccio la chemio e non ho il cancro. Sono una miracolata alla quale non è mai stato detto “signora, la sua Pet non è buona, ma non si preoccupi, la medicina ha fatto passi da gigante, inizieremo con un ciclo di chemio e faremo altri controlli”.
Non è mai stato detto a me ma ho sentito, però, il rumore che fa quella frase quando ti costringe a rovesciare il tavolo e a cercare una prospettiva nuova che non ti incattivisca, che ti migliori, che ti spinga con una forza propulsiva senza eguali a non lasciarti fregare dal dolore ma ad usarlo – avendo a mente però – che certe cose ci cambieranno e starà sempre a noi decidere “come”.
La foto l’ho scelta per rispondere alle “sfide” che hanno bombardato Facebook negli ultimi giorni. Voi ci avete messo la faccia, io voglio metterci il foulard e voglio farlo di spalle perché, chi mi sta leggendo con un foulard in testa, sa che il nodo va fatto con cura e che il colore deve essere acceso e che tutto, proprio tutto, dipende da quanto quel foulard venga sfoggiato col capo alto, col collo lungo di una giraffa reale che vede tutto da una prospettiva diversa.
Le foto erano le più disparate, tutte rigorosamente in bianco e nero ma scelte con cura, con la posa migliore, con la bocca pronunciata, con la luce giusta, alcune con una sigaretta nascosta, in barba, evidemtemente, alle lotte contro il fumo, prima causa del cancro.
Calma, non scatenatevi! O fatelo pure!
Una sfida spogliata del senso sotteso, del mondo che gli orbita intorno fatto di draghi e speranze. Non ho letto alcun commento sotto le foto che inneggiasse alla prevenzione, al rispetto del dolore del malato, di quel vuoto plumbeo che invade chi ha paura.
Chi è malato ha paura. Forse, più di chi è sano ricorda la differenza del colore del mare al mattino, quando la città dorme e lui non riesce a farlo e declina l’azzurro del mare a tutte le ore perchè dimenticarlo vorrebbe dire che la cura – oltre a fargli cadere i capelli – gli ha anche risucchiato i ricordi come una spirale senza sosta che non può fermare.
Perché chi ha il cancro – lo sa chi ha postato con orgoglio la propria foto perchè quella sfida l’ha vinta – spesso vive nelle sale d’attesa e nelle sale d’attesa dei malati non c’è il WI FI. Quindi, non vi hanno visto. Se vi hanno visto, però, probabilmente hanno pensato che stavolta potevamo abdicare e sfidarci in silenzio, di quellli sani, magari quelli che ci portano a donare porzioni di noi stessi a qualcuno piuttosto che riportare il solito”bellissima” sotto la foto in bianco e nero degli sfidanti.
Pensate con che tenerezza ci hanno guardato mentre provavamo a farci paladini solidali e contavamo i like! Pensate quante foto avremmo postato se la sfida – in questo caso davvero difficile – avesse previsto un cambiamento repentino nel look, magari una foto… udite udite, senza capelli!
Che fine avrebbe fatto quell’inno al coraggio, “accetto la sfida!”, postato con orgoglio e luce perfetta?
Posso dirlo? Nessuno, pochi, pochissimi sarebbero stati gli sfidanti se questa fosse stata quella vera, quella cruda che svilisce le qualità che noi riteniamo di avere tanto da scegliere la foto che riteniamo migliore. Neanche io, per esempio, l’ho fatto oggi, preferendo nella foto nascondere i capelli sotto il foulard.
Il punto è che la solidarietà è silenziosa e quando non lo è non ha niente a che vedere con Zuckerberg ma ha a che vedere con quanto siamo disposti a fare senza il consenso di alcuno e soprattutto senza il riconoscimento pubblico. Oppure, nel caso di specie, a quanto di noi siamo disposti a rinunciare per solidarietà.
Ho conosciuto tanta gente che combatte o che ha combattuto, guerrieri di luce senza sosta né resa. Li ho visti camminare col capo alto e rassicurare gli altri facendoli sentire “piccoli”. Alcuni ci sono ancora e hanno vinto la Guerra (perché questo è!) planando sulle miserie della vita. Altri, seppur guerrieri, l’hanno persa e c’era più dignita in loro, più vita in loro che in queste sfide. O almeno per come abbiamo mostrato di concepirle.
Nelle sale d’attesa dei malati non sai mai chi è il malato e chi il sostegno, lo capisci solo quando ne chiamano il numero e li vedi alzarsi, scomparire dietro quella porta e accomodarsi in poltrona il tempo necessario per bombardare il drago di fuoco. Chi attende prega, gioca, guarda un punto fisso nel vuoto, ripassa i colori, sfida la vertigine, si perde e non si arrende.
Nelle sale di attesa dei malati siamo tutti un po’ malati ma mai grigi, mai in bianco e nero. E il dolore e l’amore e il rispetto sono lì, figli della stessa corona ma di casati diversi.
A voi, uomini e donne seduti su quella poltrona, alle donne con i foulard colorati, agli uomini dalla chioma folta che stanno pensando di tagliarla prima che il signorino chemio gliela falci, ai bambini e alle bambine le cui madri, ventri gentili, raccontano le favole e gli baciano la testa senza riccioli capricciosi! A loro e ai fantasmi della paura che portano dentro! Possiate fregarci tutti e sfidarci ad avere la vostra compostezza!