Gela. Lo scorso mese di aprile ha varcato per l’ultima volta i tornelli della raffineria. Da sette mesi non riceve uno stipendio. L’operaio, Giuseppe D’Arma, è l’unico dell’ormai ex impressa Corima a non essere stato assorbito dall’associazione temporanea d’impresa (Ati) Edilpondi-Turco costruzioni.
Ha deciso di fare chiarezza, prendendo posizione rispetto agli errori commessi da suo padre, Armando D’Arma, condannato per reati di mafia. “Condanno e detesto gli errori commessi da mio padre – sottolinea Giuseppe D’Arma – Sono consapevole che quella del crimine organizzato non è una strada percorribile. E’ chiaro che continuerò ad amare mio padre in quanto genitore”.
Parole importanti, quelle espresse dall’operaio, che la scorsa settimana si era reso protagonista di un sit-in di protesta pacifico davanti i tornelli del petrolchimico per comprendere le motivazioni che di fatto, dopo 12 anni di lavoro per conto della Corima, non gli hanno permesso di essere assorbito dall’ati Edilponti-Turco costruzioni.
“Apprendo con dispiacere, da voci di corridoio – sottolinea D’Arma – che tra le ragioni alla base del provvedimento del mio licenziamento c’è il legame di parentela con un condannato per reati di mafia, cioè mio padre. E’ giunto il momento di rendere pubbliche le mie idee e di dimostrare che non sono come mio padre. La mia vita parla da sola, non solo da un punto di vista etico morale e professionale. Per quanto riguarda la mia fedina penale, basta chiedere alla procura.
La mia famiglia non deve essere identificata con gli errori commessi da mio padre. Se avessi l’opportunità di incontrarlo lo guiderei di certo verso la strada della giustizia, dei valori e del rispetto per gli altri. Spero solo di tornare a lavorare al più presto, senza nemmeno attendere la sentenza del giudice del lavoro”.