Fatta salva la dignità di chi per mestiere fa il pastore, per pecoraio intendo colui il quale, sebbene dotato di titolo di studio medio-alto, ricopre indegnamente un ruolo importante, soprattutto se riguarda la cosa pubblica.
Che ci sia una grave emergenza culturale nella nostra città è cosa così evidente che abbiamo finito col non vederla più. E non mi riferisco solo al fatto che persino professionisti di grido hanno magari la presunzione e la velleità di scrivere sui giornali, inconsapevoli di sfregiare la grammatica, di cadere in una vaghezza tale da rendere precario il senso di ciò che vogliono dire, di inciampare in palesi difficoltà nel dare consequenzialità ai fatti, di risultare banali fino all’indecenza.
Come pure non mi riferisco al fatto che la scuola commette veri e propri delitti per il fatto che promuova e porti avanti alunni portatori di gravi lacune che, nel tempo, diverranno irreversibili. E allora perché stupirsi se un ragazzo diplomato non sia in grado di scrivere correttamente in italiano, non sia in grado di risolvere persino un problemino di matematica perché non riesce a “leggerlo”.
Il prof. Luca Ricolfi, docente universitario, ha denunciato il fatto che il lessico dei nostri ragazzi è poverissimo e l’organizzazione primitiva o assente; e lamenta anche il fatto che quando egli deve valutare una relazione o una tesi di laurea, una parte spropositata del suo tempo va alla mera correzione della lingua. Per l’esperienza maturata in tanti anni di insegnamento, rilevo che la qualità dell’insegnamento risulta piuttosto carente per una impostazione dei programmi assolutamente irrazionale, se non proprio cervellotica. E così succede che un bambino perda ore e ore dinanzi ad un computer per una ricerca che nulla aggiunge alla sua formazione.
Meglio e più produttivo sarebbe, anche dal punto strettamente cognitivo, che i ragazzi profondessero le loro migliori energie nella lettura per comprendere meglio il senso di ciò che leggono e dotarsi degli strumenti più idonei per migliorare l’espressione di ciò che scrivono. Cultura non è la somma di cognizioni, ma la capacità di saper leggere la realtà e interpretarla. Consiglierei, non solo nella scuola dell’obbligo, di tornare al dettato persino nei licei. Migliorare la correttezza e la forma d’espressione, curare l’ortografia e la costruzione del periodo, che sono forme della bellezza, significa saper mettere ordine nei propri pensieri, incanalare i frutti della fantasia, operare prodigiose sintesi, alzare il livello della propria consapevolezza. Ma l’emergenza culturale, cui intendo riferirmi, riguarda soprattutto la più che decennale cattiva prassi della politica che vuole che vengano gratificati, non coloro i quali hanno la competenza, l’esperienza, l’amore, le idee, gli aneliti che la cosiddetta civiltà richiede, ma appunto i pecorai cui facevo poc’anzi cenno. Gela, in quanto a civiltà, è in palese e continuo affanno, perché da molto tempo ormai non ha riferimenti culturali forti. Scorrendo le immagini e i nomi dei candidati e degli eletti della appena conclusa campagna elettorale, balza subito agli occhi che l’altezza culturale di molti di costoro non compete certo con l’everest.
Pertanto, non mi sorprenderei più di tanto se tra i componenti della prossima giunta comunale prevalessero i pecorai, cioè coloro i quali non hanno i numeri giusti per ricoprire incarichi dell’importanza richiesta, gente che magari non ha mai aperto un libro, eppure nominata assessore alla Cultura o alla Pubblica Istruzione. Perché ciò che ha sempre contato non è il merito e il talento, ma la militanza, il collaudato e annoso servilismo, i giochi d’interesse o di spartizione del potere con criteri dettati più o meno dal ricatto o dalla convenienza. E così succede che menti brillanti, intuitive, che hanno magari saputo esprimere valori incontestabilmente importanti in vari campi, sono costrette a restare al palo e a subire l’ostracismo di chi teme che accanto ad esse potrebbero apparire in dimensioni lillipuziane (termine che ho già utilizzato in altra occasione per rimarcare lo stesso concetto).
Ed io, solo per fare un esempio, mi sono sempre chiesto come mai una persona come il prof. Nuccio Mulè che in tanti anni di studio e di ricerche, si è molto speso, così come hanno fatto tanti altri in altri campi, per dare un po’ di lustro a questa sonnacchiosa città, non sia mai stato reclutato da alcuna forza politica perché mettesse al servizio della città le sue competenze, la sua esperienza professionale, i frutti dei suoi slanci amorosi per questa stessa città. E’ chiaro che del prof. Mulè, come di altri, non giudico, anche per non cadere nel ridicolo, né l’indole, né aspetti morali o eminentemente professionali perché sarebbero semmai aspetti di competenza di altri; e anche perché potrei cadere in una indecorosa iperbole. Ma quanti altri personaggi, più o meno noti, cito il prof. Aldo Scibona (e mi scuso, anche per ragioni di spazio, se non ne cito altri altrettanto meritevoli), avrebbero potuto e potrebbero ancora dare contributi significativi alla causa comune e dare soprattutto dignità alle stesse istituzioni.
Questo per dire che sono gli uomini “speciali”, più che le sterili istituzioni, che mettono in cammino altri uomini verso la civiltà, proprio in virtù delle loro competenze, delle loro intuizioni, della loro saggezza, abnegazione, lungimiranza. E qui mi sento quasi obbligato perché, come si dice, ho visto e toccato con mano, ricordare anche il caso del prof. Totò Giudice il quale, ritenendo perniciosa per i ragazzi una vacanza lunga quattro mesi, volle istituire un campus estivo aperto a buona parte della città, poi replicato ogni anno fino al giorno del suo pensionamento, per sottrarre proprio i bambini all’insidia della strada e per consentire a ciascuno di essi di elevare il proprio livello socio-culturale. Mai la scuola era stata meta tanto ambita dalle famiglie e dagli stessi bambini. Non so immaginare eventi culturalmente più significativi. Il consuntivo? Una messe sbalorditiva di risultati sotto il profilo della socialità, del divertimento, delle gratificazioni, della crescita culturale dei bambini e delle relative famiglie. Il prof. Giudice non ha certo rifatto il mondo, come nessuno può più rifarlo dopo la morte delle grandi utopie. Ma si possono realizzare tante piccole utopie. E il prof. Giudice ha saputo realizzarne un’altra forse ancora più importante. In un momento di illuminazione, pur tra incalcolabili difficoltà, ha pensato di trasformare un’area della scuola dalle dimensioni importanti, sino ad allora adibita ad una sorta di discarica a cielo chiuso, sostanzialmente niente di diverso da una topaia, in un ambiente in cui hanno avuto, poi, dimora quasi principesca arti come la musica, le lingue, il disegno e le scienze con tutto il loro formidabile arredo. Questo per dire che, in piccolo o in grande, sono particolari uomini che determinano il destino di altri uomini e cose. Ricordo a chi, tra breve, avrà in mano le sorti della città, che non è mai troppo tardi per dare una decisa sterzata al modo di fare politica, privilegiando la qualità e il merito. Altrimenti avranno ancora lunga vita i pecorai!