Novara. Le condanne pronunciate dal giudice dell’udienza preliminare del tribunale di Novara risalgono al novembre dello scorso anno. Trent’anni di reclusione ciascuno per Antonio Lembo e Angelo Mancino, ritenuti i killer del gelese trentatreenne Matteo Mendola, ammazzato nei pressi di un capannone abbandonato nei boschi di Pombia. Le motivazioni di quel verdetto (emesso al termine del giudizio abbreviato) sono state depositate e i difensori hanno provveduto a depositare l’appello. Una conferma in tal senso arriva dal legale di Lembo, l’avvocato Gabriele Pipicelli. Mancino, invece, è difeso dagli avvocati Alessandro Brustia e Fabrizio Cardinali. Per il gup novarese, quello in cui cadde Mendola fu un vero e proprio agguato. Venne portato in una zona isolata appositamente, ma forse non si attendeva il tranello. Come spiegato già dopo l’arresto proprio da Lembo, l’ordine di ammazzare Mendola, residente stabilmente a Busto Arsizio insieme alla famiglia, sarebbe stato impartito da un altro gelese, l’imprenditore edile Giuseppe Cauchi (attualmente a processo per questi fatti davanti alla Corte d’assise di Novara).
Il trentatreenne venne ucciso a colpi di pistola e finito con una vecchia batteria da auto, usata per infliggergli altre profonde ferite alla testa. La vicenda, quindi, verrà valutata in Corte d’assise d’appello. Se Lembo ha confessato già dopo l’arresto, Mancino invece ha sempre negato di aver saputo che Mendola doveva essere ucciso. Stando alla versione fornita dai suoi legali, l’appuntamento nei boschi di Pombia doveva servire probabilmente per organizzare qualche furto in zona. Da quanto emerso, almeno in base alla ricostruzione degli investigatori, Cauchi avrebbe dato l’ordine di uccidere la vittima forse per liberarsi di un debito che aveva contratto proprio con Mendola.