Novara. La sua chiamata in causa sarebbe stata frutto di “un calcolo”. I giudici della Corte d’assise di Novara hanno depositato le motivazioni della sentenza che nel novembre di un anno fa sono state alla base dell’assoluzione dell’imprenditore edile gelese Giuseppe Cauchi. Il cinquantaquattrenne venne arrestato dagli investigatori novaresi con l’accusa di essere il mandante dell’omicidio del trentatreenne Matteo Mendola, a sua volta gelese ma da anni residente in provincia di Varese insieme alla famiglia. Il corpo di Mendola venne trovato nei boschi di Pombia, una frazione in provincia di Novara. Sarebbe stato ucciso, così come già accertato in primo e secondo grado, da Antonio Lembo e Angelo Mancino (condannati entrambi a trenta anni di detenzione). Lembo ammise le proprie responsabilità subito dopo l’arresto e spiegò che l’ordine sarebbe partito da Cauchi. Forse, una questione di soldi. Il racconto di Lembo, però, non ha trovato conferma in aula. Durante il confronto tra killer e presunto mandante, emersero “troppe discrasie”, così hanno scritto i giudici piemontesi. I difensori dell’imputato, gli avvocati Flavio Sinatra e Cosimo Palumbo, hanno sempre puntato sul fatto che non ci fossero ragioni per collegare Cauchi a Mendola. I rapporti tra i due non sarebbero mai stati tesi, al punto da pensare ad un eventuale piano di morte. Il trentatreenne venne ucciso a colpi di pistola e il calcio dell’arma fu usato per fracassargli il cranio. I magistrati novaresi, nelle motivazioni, hanno ribadito l’assenza di prove concrete che potessero rappresentare il movente di un possibile piano di morte. L’imprenditore gelese, anche in aula, ha spiegato di non aver mai nutrito astio nei confronti della vittima, nonostante alcuni crediti che i familiari del trentatreenne avanzavano nei suoi confronti.
I pm della procura di Novara avevano chiesto la condanna all’ergastolo. Starebbero valutando la possibilità di impugnare la sentenza di assoluzione. I familiari della vittima sono parti civili.