Gela. Per gli ispettori del lavoro intervenuti nel capannone di contrada Brucazzi, dove si verificò un grave incidente, quattro anni fa rivelatosi fatale al sessantaquattrenne Giuseppe Fecondo, sarebbero mancati i dispositivi di sicurezza. L’operaio precipitò dal tetto della struttura, mentre effettuava un sopralluogo preliminare all’installazione di pannelli fotovoltaici. Arrivò all’ospedale “Vittorio Emanuele” ancora cosciente ma poi le sue condizioni si aggravarono, fino alla morte. Davanti al giudice Miriam D’Amore, a rispondere di omicidio colposo c’è il titolare dell’azienda per la quale lavorava Fecondo, Davide Catalano. Alle accuse è chiamata a rispondere anche l’azienda. Gli imputati sono difesi dagli avvocati Fabrizio Ferrara e Francesco Giocolano. Nel corso dell’ultima udienza tenutasi, è stata proprio una degli ispettori a ricostruire quanto accertato nel corso del sopralluogo. In base ai rilievi effettuati, Fecondo non avrebbe avuto a disposizione imbracature, che avrebbero potuto evitargli il volo da circa sei metri di altezza. Allo stesso tempo, rispondendo alle domande del pm e degli stessi difensori, l’ispettore ha spiegato di aver accertato l’assenza dei dispositivi di sicurezza analizzando le foto scattate sul posto, ma senza accedere al tetto.
Un aspetto che i difensori vogliono ulteriormente approfondire, anche alla luce delle dichiarazioni rese invece da altri lavoratori che si trovavano sul posto al momento dell’incidente. I familiari di Fecondo, che hanno scelto di seguire l’intera indagine fin dall’inizio, sono nel dibattimento come parti civili (rappresentati dagli avvocati Rosario Giordano, Giacomo Di Fede e Cristina Guarneri). Ritengono, invece, che quanto accaduto alla vittima sia stato conseguenza dell’assenza dei presidi di sicurezza.