Gela. La vasca 4 di raffineria, secondo le accuse, venne trasformata in una presunta discarica illecita di rifiuti pericolosi, soprattutto amianto. Lo scorso giugno, al termine del giudizio di primo grado, sono arrivate tre condanne, pronunciate nei confronti dell’ex amministratore di raffineria Bernardo Casa e dei responsabili tecnici Biagio Genna e Arturo Anania. Quattro mesi di reclusione, con pena sospesa, perché ritenuti responsabili di inosservanza delle prescrizioni contenute nell’autorizzazione. Sono cadute, invece, le contestazioni più pesanti, che avevano indotto il pm Mario Calabrese a chiedere condanne, per tutti gli imputati, con pene comprese tra i due e i tre anni di reclusione. L’assoluzione è stata pronunciata per Rosario Orlando e Aurelio Faraci, oltre che per altri capi di imputazione che venivano contestati sempre a Casa, Genna e Anania. I verdetti di condanna sono stati impugnati dai difensori, che hanno provveduto a depositare i ricorsi, adesso anche nelle mani dei legali di parte civile, che hanno rappresentato i lavoratori esposti all’amianto, le associazioni “Aria Nuova” e “Amici della Terra-Gela”, l’Ona e il Comune di Gela (gli avvocati Davide Ancona, Joseph Donegani, Flavio Sinatra, Salvo Macrì, Giuseppe Laspina, Ezio Bonanni e Giovanni Avila). Nel dispositivo finale, il giudice ha riconosciuto il diritto al risarcimento dei danni. Ora, saranno i magistrati della Corte d’appello di Caltanissetta a valutare i fatti, emersi dopo l’avvio di un’inchiesta, coordinata dai pm della procura ed eseguita dai militari della capitaneria di porto. In base alle risultanze, manager e tecnici del cane a sei zampe avrebbero saputo che quella vasca era usata come discarica di amianto, senza fare nulla per evitare che le polveri killer si potessero disperdere in atmosfera, compromettendo anzitutto la salute degli operai, presenti nello stabilimento di contrada Piana del Signore. Coperture logore, big bag non efficienti e, solo dopo anni, vennero apposti regolari cartelli d’avviso sulla presenza d’amianto. Per il pubblico ministero che ha sostenuto l’accusa in primo grado, si trattò di un vero e proprio “deposito incontrollato” di rifiuti altamente pericolosi. Il magistrato ha citato le risultanze delle perizie tecniche, sottolineando come l’amianto stoccato in quella vasca fosse friabile, ancora più pericoloso a causa dei forti venti che si abbattono sulla zona. Gli imputati sarebbero stati “consapevoli”.
I legali di difesa degli imputati, gli avvocati Gualtiero Cataldo e Grazia Volo, hanno invece ribadito l’assoluta regolarità delle procedure messe in atto. Sarebbero state rispettate le autorizzazioni rilasciate per lo smaltimento dei rifiuti in una vasca, comunque classificata come discarica. Hanno spiegato che il management aziendale fu costretto a fare i conti con i ritardi nel rilascio di atti autorizzativi e rinnovi da parte delle autorità competenti. Tra le parti civili, alle quali è stato riconosciuto il diritto al risarcimento dei danni, c’è anche il dipendente Eni Vincenzo D’Agostino, che per anni è stato addetto alla vasca e che avrebbe subito tutte le conseguenze dannose di fumi ed emissioni. In più occasioni, avrebbe chiesto ai superiori interventi di messa in sicurezza, che secondo le accuse non sarebbero mai stati autorizzati.