Gela. Dopo le condanne decise sia in primo che in secondo grado, saranno i giudici romani della Corte di Cassazione ad esaminare i ricorsi presentati dai difensori dei presunti
affiliati a cosa nostra locale, pronti stando all’indagine “Fenice” a ricostruire il clan sull’asse Gela-Niscemi.
Le condanne. Lo scorso ottobre, i giudici della Corte di appello di Caltanissetta hanno depositato le motivazioni legate alla sentenza di condanna emessa nei confronti di Alessandro Barberi, Alberto Musto e Fabrizio Rizzo. Sedici anni di reclusione sono stati comminati al presunto boss Alessandro Barberi, in continuazione con un precedente verdetto, dieci anni e un mese ad Alberto Musto e otto anni a Fabrizio Rizzo. Nelle motivazioni depositate dai giudici di appello, viene confermata la volontà di ricompattare il gruppo di cosa nostra, facendo perno sull’esperienza del gelese Barberi e sulle nuove leve di Niscemi, ad iniziare proprio da Alberto Musto. Per i giudici, il gruppo mirava a riprendere il controllo del giro di estorsioni, mettendo a segno una serie di danneggiamenti e intimidazioni. I difensori dei tre imputati, gli avvocati Flavio Sinatra, Francesco Spataro e Antonio Impellizzeri hanno contestato, in entrambi i gradi di giudizio, le risultanze d’indagine, sottolineando anche l’infondatezza delle dichiarazioni rese da alcuni collaboratori di giustizia, con in testa Roberto Di Stefano, successivamente uscito dal programma di protezione e condannato nel procedimento scaturito dal blitz antimafia “Fabula”. Tra i primi a depositare il ricorso in Cassazione, Alberto Musto, difeso dall’avvocato Francesco Spataro. Stando agli inquirenti, sarebbe stato lui il collegamento tra i capi storici di cosa nostra niscemese e l’organizzazione da ricostituire.Tra le contestazioni mosse agli imputati, anche quella legata alle pressioni subite dai fratelli Lionti, imprenditori niscemesi, che si sono costituiti parte civile così come l’associazione antiracket “Gaetano Giordano”, rappresentata in aula dall’avvocato Giuseppe Panebianco.