Quotidiano di Gela

Ippolito Nievo sparito in mare con le prove delle male finanze garibaldine

Gela. Abbiamo tentato di descrivere il comportamento di alcuni uomini del risorgimento Italiano e abbiamo notato che i pennivendoli agiografici e gli scrittori apologetici non mancano assolutamente da...

A cura di Luigi Maganuco
08 settembre 2018 10:55
Ippolito Nievo sparito in mare con le prove delle male finanze garibaldine - Il piroscafo Ercole sparito con le importanti prove delle finanze garibaldine
Il piroscafo Ercole sparito con le importanti prove delle finanze garibaldine
Condividi

Gela. Abbiamo tentato di descrivere il comportamento di alcuni uomini del risorgimento Italiano e abbiamo notato che i pennivendoli agiografici e gli scrittori apologetici non mancano assolutamente da questo periodo che inizia dal 1860 ai nostri giorni. Tra questi, Cesare Abba, Giuseppe Bandi e Ippolito Nievo. Quest’ultimo si comportava dal punto di vista etico come le “tre scimmiette” e fece una fine tremenda. Nacque a Padova il 30 novembre 1831 e fu poeta, scrittore e patriota Italiano del nostro risorgimento, ricoprì la carica di vice intendente di Garibaldi e si occupò di tutta la documentazione amministrativa dello sbarco dei mille in Sicilia e, ancora oggi, gli storici stanno cercando di chiarire, indagando sull’avvenimento che portò artatamente alla morte il patriota. La notte del 4 marzo 1861 al largo di Capri, il piroscafo Ercole, su cui viaggiava con i 68 uomini, sprofonda nel mare Tirreno, sommergendo tutto e tutti, compresa la documentazione integrale delle finanze Garibaldine. Il piroscafo era partito da Palermo per raggiungere Napoli e poi Genova per andare successivamente a Torino.
Il poeta non raggiunge mai la destinazione perché sia Torino che Londra non avevano nessuno interesse a ricevere quella documentazione scottante. Il Nievo, non aveva ascoltato le osservazioni del console tedesco Hennequin che aveva sconsigliato di intraprendere quel viaggio e infatti, la notizia del naufragio, fu data molto tempo dopo, quando fu certa e irrecuperabile la perdita del piroscafo e di quello che conteneva.

All’eroe dei due mondi, fece comodo la scomparsa della documentazione perché così fu a lui facile ricattare il governo Sabaudo, che avrà buon gioco per relegarlo all’esilio nell’isola di Caprera volontariamente.
Isola che Garibaldi aveva già acquistato, per metà, nel 1852 dal proprietario Inglese Collins, con i denari dell’eredità per la morte del fratello Felice e con i proventi del commercio di schiavi cinesi. Mentre l’altra metà gli era stata donata nel 1865 dalla vedova dell’inglese Collins di lui innamorata e pagata quasi niente. L’esilio volontario a Caprera fu integrato dal governo di sinistra De Pretis a cui faceva parte lo stesso Garibaldi e così nel 1876 le viene concessa una pensione di 100.000 lire annui più gli arretrati a partire dal 1860. Alla morte di Garibaldi, avvenuta nel 1882, viene concesso un vitalizio di 10.000 lire a testa per l’ultima moglie e i suoi figli, di cui l’ultima Clelia è morta nel 1954. Chiaramente i nostri uomini del risorgimento Italiano, e nostri liberatori, non sono morti di stenti o di fame ma i loro sacrifici, sono stati ricompensati degnamente dai nostri maledetti governanti, anche con onorificenze alla memoria. Mentre per i Borboni che regnarono per il regno delle Due Sicilie e non sul regno delle Due Sicilie, abbiamo riservato disprezzo e maledizione come per tutti i nostri combattenti in difesa del regno Borbonico, che abbiamo definito “briganti” , non abbiamo riservato altro che indegna sepoltura. Perché molti insepolti si trovano esposti al museo Lombroso di Torino. E’ questa Italia sensibile ad ogni grido di dolore che si eleva da qualsiasi direzione, non tiene conto di questo meridione massacrato, incolto, ignorante che colonizzato cerca un appiglio per sollevarsi, mentre continua ad essere bistrattato e deriso da un nord insensibile alla pietà umana e si dichiara a voce non razzista ma apertamente dominatore. Comunque non c’è più spazio per uno sterile revanscismo e per il più devitalizzante vittimismo ideologico costruito su recriminazione e autocommiserazione prestanti il fianco ai più semplicistici rimproveri di nostalgismo di cui nessun meridionale fiero e proattivo dovrebbe macchiarsi. Tutta la nostra attenzione dovrebbe rivolgersi al futuro affinché sia migliore del presente e questo si può ottenere solo conoscendo il passato e i suoi insegnamenti. Potremmo ricordare Carlo di Borbone Farnese che incoronato il 3 luglio 1735 re di Napoli e di Sicilia, nella cattedrale di Palermo, rese Napoli capitale nel 1734 e sebbene non avesse grande amore per la musica, per facilitare tra i sovrani europei la funzione diplomatiche di incontri, fece costruire quel teatro Regio di San Carlo. Da qui passarono tutti i monarchi, i diplomatici e i musicisti dell’epoca.
Teatro che è oggi il più antico e il più lirico d’Europa, prima della scala di Milano. Le opere compiute dai Borboni resero il regno, e in particolare Napoli, una delle principali capitali europee al pari di Londra, Parigi, Vienna e Madrid.
Fu questa una stagione di lento e avviato progresso contrastato soltanto dalla massoneria internazione e in particolare quella inglese che tentò di unificare attraverso un progetto determinato, le monarchie dell’epoca a vantaggio esclusivo del Piemonte che li realizzò, causando al Regno delle Due Sicilie uno shock storico mai sanato. Questa situazione, provocò l’emigrazione di un popolo che mai aveva sofferto di un tale problema e un corto circuito da cui è derivato un vuoto di memoria nei figli dei figli, scavato con un’opera propagandistica di una nazione storica che non appartiene al luogo e alla sua identità culturale. Ancora oggi il periodo Borbonico che vide il progresso del suo Regno, viene visto dagli storici ipocritamente come l’immagine della tirannia e dell’arretratezza. Chi arrivò dopo i Borboni, i Savoia, si sono solo preoccupati di cancellare le tracce dell’unica dinastia Napoletana che aveva governato il Regno delle Due Sicilie, cioè i successori dell’Italo Spagnolo Carlo. Infatti, nella facciata del palazzo Reale di Napoli vengono elencati dopo l’unità d’Italia i nomi di: Ruggero il Normanno, Federico di Svevia, Carlo d’Angiò, Alfonso d’Aragona, Carlo V d’Asburgo, Carlo III di Spagna, Gioacchino Murat di Francia e, infine, Vittorio Emanuele II d’Aosta. L’imperatore Carlo III di Spagna, avrebbe dovuto essere ricordato come Carlo VII oppure Carlo di Napoli e Sicilia, senza considerare che manca la dinastia Borbonica, completamente dimenticata, al suo posto abbiamo Vittorio Emanuele II francofilo perché si esprimeva in francese assieme a Cavour. La strumentalizzazione dell’opposizione al regime Borbonico, giunse al punto di considerare Masaniello un rivoluzionario contro gli Spagnoli nella rivolta del 1647. Il vicereame Jean Noel Schifano nel suo Dictionnaire amoureaux de Naples scrive: “Masaniello non è per nulla rivoluzionario, non si rivolta contro la nobiltà Spagnola, ma contro la nobiltà Napoletana che lo riduce letteralmente alla fame, che affama la plebe di tutta la città, senza tregua giurerà fino alla morte la propria autentica fedeltà alla Spagna. I suoi alleati camorristi dell’inizio, per compiacere la nobiltà e raccogliere favori e benefici, lo uccidono alla fine, nello stesso momento in cui lui rinuncia a un potere che non ha mai esercitato”. Il grido di Masaniello era stato: viva ‘o rre ‘e Spagna, mora ‘o malgoverno (Angelo Forgione- made in Naples).

Le migliori notizie, ogni giorno, via e-mail

Quotidiano di Gela sui social