Poche volte mi è capitato di leggere un libro di poesie o un’opera letteraria e di restarne talmente colpito da sentire il bisogno di rileggerli per riprovarne il piacere estetico e per coglierne i significati più profondi.
Mi è capitato, tanto per fare un esempio, con I quattro quartetti di Thomas Eliot e Quando i lillà di Walt Whitman. I pregi artistici della poesia di Gaetano Trainito riguardano maggiormente l’inesplicabilità del verso, che, come diceva Borges, costituisce il senso e il valore della poesia.
Per ciò che riguarda, invece, i significati, questi possono, come vorrebbe proprio Eliot, seguire le emozioni, perché, se è vera poesia, si può provare emozione anche prima di aver capito. Questo perché la vera poesia offre molteplici piani di interpretazione e svariati toni di godimento estetico. Ma nella poesia di Gaetano Trainito puoi trovare di più, puoi trovare l’elemento perturbante, un requisito dell’inconscio che sovente incorona la vera poesia.
Altri hanno già detto della poesia di Gaetano Trainito e, pertanto, parrebbe solo un’espressione di vanità tornare a parlarne. Ma, per quanto rispettabili siano le riflessioni di coloro che l’hanno già trattata, c’è sempre un dettaglio o un significato che aspetta di essere rivelato; nessuno può dire la parola definitiva sull’arte in genere e maggiormente sulla poesia, quando si è davvero dinanzi ad autentica poesia. Ma mi soffermerò per lo più sui versi che mi hanno maggiormente colpito, emozionato, fatto riflettere.
La silloge si apre con Sete di spazi, la poesia che dà il titolo alla raccolta. Sete di spazi, sette brevissimi versi che chiudono un discorso mai cominciato o, quantomeno, sottinteso. Ciò che manca, la parte che avrebbe dovuto orientarci non esiste, esiste nella mente di Gaetano Trainito. Egli non ci dice chi o che cosa è legato al tempo, non c’è chiaramente un soggetto espresso. Quei tre puntini con i quali inizia Sete di spazi pesano come un macigno sul resto di quelle turbinose parole. Ognuno può sostituirli con un proprio soggetto e i conti torneranno comunque. Una manciata di parole spesso liquidata col banale rilievo che il poeta è uno che cerca, che rincorre l’infinito. Gaetano Trainito, in realtà, non rincorre l’infinito come se fosse un oggetto da raggiungere: lo possiede già nel cuore e nella mente. E’ la finitezza dell’esistenza che gli muove dentro la smania di evasione. Vuole, semmai, che questo infinito non resti imprigionato nel finito, in ciò che è e rimane prosaico: la realtà, l’angusta realtà.
Altro gioiello è … la cenere… Il titolo, preceduto e seguito da puntini di sospensione, intende chiaramente colpirci. Seguono cinque versi ineffabili. I sogni sono, per costituzione, realtà senza corpo, realtà che, come il neutrino, attraversa ogni cosa: ma sono nostre creature. Eppure non ci appartengono più di quanto non ci appartengano il sole e le stelle. Trainito ci confessa di aver cremato i suoi sogni, cosa inusuale, il cui effetto è straordinariamente perturbante. Da questo momento, i sogni non si perdono, non svaniscono o non si realizzano, semplicemente. Cremandoli, il poeta ha mutato i propri sogni da realtà astratta a cenere, il solo modo per poterli possedere e cullare nel cavo delle sue mani. Ma i sogni, quantunque sottoforma di cenere, non appartengono all’uomo, ma al creato che ne reclama il diritto servendosi del vento. Il quale si incunea tra le mani del poeta facendone inesorabilmente disperdere la cenere. Consapevole o meno, anche il poeta, con le sue ceneri, ha nutrito l’universo. Ma, per quanto disilluso e disperato, il poeta ha anche operato una sorta di purificazione della propria esistenza.
Autentico capolavoro è Due Novembre. Sette versi in cui, come un velo di Maya, il poeta vorrebbe coprire la propria colpa per non aver pregato il due novembre sulla tomba del padre. I tre versi finali sono uno straordinario bassorilievo poetico-filosofico. Attribuendo assoluta inconsistenza al tempo lo spazio e l’ora, considerandoli semplice finzione, il poeta opera una geniale mistificazione della realtà, realizzando così la menzogna perfetta che solo la grande arte, come direbbe Carlos Williams, può realizzare. Basta al poeta interporre lo spazio tra due forme di tempo, (il tempo e l’ora) perché tutto diventi tempo, e il gioco è fatto. Questo come concetto. Nella realtà lo spazio è diventato di una lunghezza non affrontabile e la distanza tanto grande che lo separa dal padre da risultare incolmabile. Il poeta, come fa ogni uomo, tenta di liberarsi della colpa scaricandola sul tempo. Tempo e spazio uguale finzione.
In Voglio annegare, in soli tre versi, il poeta tratta, sviluppa ed esaurisce tutta la questione dell’esistenza: la nostra condizione di esseri finiti che anelano alla conoscenza di qualcosa immensamente più grande di noi, alla conoscenza di Dio. E in quale elemento è possibile la conoscenza se non nella luce, il primo prodigio di Dio? Tra il secondo e il terzo verso, il poeta lascia libero uno spazio che potrebbe apparire anomalo, ma quello spazio è la distanza timorosa, speranzosa, riverenziale che ci separa da Dio.
In Fate vestite di velo, il poeta ci rivela tutto il suo dolore per la perdita di ogni illusione. La sua vita scorre in una solitudine indicibile, che non trova parole, per di più gravata da terribili silenzi. Il suo cuore è in disfacimento. Inconsciamente, egli vorrebbe invertire la direzione della sua esistenza, vorrebbe ricominciare. Ma chi mai potrebbe dargli un cuore nuovo? La tragedia dell’uomo è che non gli è mai possibile ricominciare!
Ne Il sibilo delle cicale, Trainito tocca forse l’estrema forma di disprezzo verso il mondo e persino verso gli affetti: ne recide ogni legame. Niente potrà più confortarlo dopo la morte. Consente solo che le cicale cantino sul suo silenzio, semplicemente perché esse sono metafora e simbolo dell’estate, di qualcosa di effimero e di temporaneo, qualcosa che non lascerà alcuna traccia.
Trainito ci descrive la morte come condizione, come stato cui può essere adattata qualunque cosa. Ma la cosa più cara, più nobile, maggiormente introiettata dall’uomo è l’immagine della propria madre, di cui il poeta conserva l’ultima e definitiva, pietosa e tragica: mani immote trascolorate in un bianco che non è più umano, la fronte senza rughe, appianata dal tocco freddo della morte, sprofondate nella pace di un immobile, marmoreo silenzio. (1972, titolo della poesia).
In L’idealista, Trainito pone l’attenzione sui sogni, il volano della nostra vita. Egli ci dice che si può restare e morire bambini anche da vecchi se si coltiva ancora un sogno. Sembrerebbe l’effetto di un appassionato cedimento del cuore e forse, lo è pure, ma in questo modo il poeta mette anche in evidenza l’insensatezza e la stranezza del mondo e della vita, come vorrebbe Schopenahuer. Comunque, ci troviamo di fronte all’unico caso in cui il tempo viene in qualche modo fronteggiato, se non proprio piegato.
Il filo conduttore, più o meno visibile, dell’opera di G. Trainito è, appunto, il tempo, anche quando sono messi a fuoco lo spazio o i luoghi. Gli affetti, gli amori, la disillusione, il dolore sono sempre drammaticamente intessuti di tempo. Gli amori cantati da Trainito hanno un epilogo quasi sempre disperato, lasciano ferite insanabili, cicatrici eternamente doloranti. Così è in Luce degli occhi…, in cui l’amore è vissuto con una intensità e una drammaticità tali da indurre il poeta, stremato dalla sofferenza, ad invocare la morte. Non avevo mai riscontrato prima esplicitata la sofferenza d’amore in maniera tanto angosciata. Il poeta, la cui anima è ubriaca di lei, non può respirare, muovere alcun passo, parlare, persino guardare senza di lei. E prosegue: ”Ti sento nel mio petto/respiro del respiro/luce degli occhi/ arsura della gola”. Ed, infine, il desiderio di morire.
Gaetano Trainito non ne fa un mistero: la sua poesia si ispira alla filosofia di Schopenhauer, ma sfocia di tanto in tanto nella filosofia di Emil Cioran. Per questo la sua poesia ti inquieta, ti fa riflettere, non ti dà quasi pace, perché il significato vero, inappuntabile senti talvolta che ti sfugga, dove tutto è possibile e tutto nel contempo sembra non essere sufficiente. Il verso è quasi sempre stringato, agile e preciso colpo di scalpello, in cui predominano la cadenza, il ritmo, il ritmo incalzante. La poesia di Gaetano Trainito è più scultura che pittura. La parola ha sempre valenza tridimensionale; il poeta non si affida al chiaroscuro delle due dimensioni. E per essere questa, quasi sempre è scarna, lapidaria, non cede alle ingannevoli e sedicenti sfumature. E’ una poesia tutto cose, al punto che in molte poesie non trovi neanche un verbo. E’ lo stesso poeta che ne rifugge, perché sa che non è il colore che potrebbe rendere più fascinoso e importante il suo verso. E’ il sentimento che, di volta in volta, presenta le sue colorazioni. Il nostro poeta, come Milton Montale e altri, non si pone nemmeno il problema della rima, che sarebbe nient’altro che un semplice ornamento, quasi una macchinazione, un compiacimento sterile della parola, che finirebbero col penalizzare la stessa incisività del verso.
Trainito lo dice chiaramente: è infelice. Ma noi ne ridiamo, non perché egli non sia sincero, ma dal momento in cui ce ne parla, la sofferenza, lo sgomento e il senso dello smarrimento, persino le lunghe e oceaniche solitudini, sono diventati un’altra cosa, sono già stati superati; certo, ha dovuto attraversare l’inferno interiore per poter raggiungere il paradiso pieno di luce dell’arte (Sui gradini della banalità) e la coscienza di sé, processo che Jung ha definito di individuazione.
Il tempo opera mutamenti nell’animo umano, che si manifestano poi con più o meno evidenti contraddizioni. Il nostro poeta è un laico, costantemente però insidiato dal senso del religioso, che talvolta si esplicita in vera e propria fede come nella poesia Preghiera. Trainito si rifiuta di credere che una manciata di elettroni (proprio così li chiama) possono dare il canto degli uccelli e il sorriso dei bambini E che dire, poi, di Francesco, arco teso al soprannaturale?
Ho il sospetto, però, di non avere, fino ad ora, dato pienamente l’idea del valore e della bellezza del verso di Gaetano Trainito. Tanti altri temi, altre sensazioni, altre emozioni riservano le numerosissime poesie che non ho trattato. Ho trascurato, incautamente, per esempio, Ombre, una straordinaria raffica di parole che, come un inesorabile vortice, ti porta quasi a toccar con mano come possa un’anima perdere la propria unità e integrità, perdere pezzi, allorquando lontane, care immagini, ritenute irrimediabilmente perdute, si riappropriano del cuore di un uomo. La conclusione della poesia è talmente sorprendente e significativa, che non voglio neanche farne cenno: sono versi che ogni cuore e ogni mente deve interpretare da sé. Ma mi sentirei quasi in colpa se non facessi almeno un breve cenno di Le ore, in cui lo strapotere del tempo sulla vita e sui sentimenti umani sembra accusare qualche defaillance, qualche isola di fragilità. Ma è solo un breve abbaglio, se non proprio un vero e proprio inganno. Pur tuttavia, in questa poesia, la bellezza del verso e la terribilità del tempo quasi competono: la forza dell’uno finisce, alla fine, con l’essere la forza dell’altro e, quasi in un gioco a rimando, entrambi finiscono col mettere in primo piano i sogni e i sentimenti più profondi che caratterizzano quel particolare animale chiamato uomo.
Poesia complessa, quella di Trainito. Il poeta dice più di quanto egli stesso sappia o immagini, per quel principio che vuole che l’opera letteraria sia, almeno in parte, sogno, ossia prodotto e manifestazione dell’inconscio. Per questo la poesia del nostro poeta può essere pienamente compresa se non dopo che è stata amata, più e più volte rivisitata, ed, infine, interiorizzata. E allora puoi anche soffermarti su qualche verso, per la sua bellezza e per il suo significato. D’altronde, è impossibile spiegare la bellezza di un verso, e nella poesia di Trainito trovi nel verso parole che altre parole non possono spiegare. Soprattutto quando ti trovi di fronte a certi prodigiosi aforismi, che Nietzsche considerava le forme dell’eternità. Aforismi che sarebbero l’orgoglio di tanti osannati scrittori di ieri e di oggi: a) Le ore tessute in silenzio si strappano sotto le mani; b) La misura del tempo gira l’inconscio nel nulla… Esistere è morire; c) Il tempo lo spazio e l’ora sono finzione; d) Elemosinare la vita ed ottenerla non è un prodigio. Miracolo è salvare la speranza; e) Le cose – viste dall’alto – si scoprono morendo; f) Nell’ora della verità c’è solo silenzio.
E’ un inferno quello che ci presenta e rappresenta Trainito. Però, egli ci confessa che gli affetti e le sofferenze trovano voce diversa col trascorrere degli anni. L’amore, motore della vita, acquista negli ultimi anni colori di pastello. Egli, nella Dedica a una dolce fanciulla, qualcosa ci lascia già immaginare. E noi vogliamo immaginarne le parole e il contenuto, con la voce del poeta che sembra estenuarsi in una dolcezza senza fine.