Gela. “Nicola Liardo me lo presentò Domenico Sequino”. Il collaboratore di giustizia Angelo Bernascone è stato sentito davanti al collegio penale del tribunale, presieduto dal giudice Miriam D’Amore. Ha testimoniato nell’istruttoria dibattimentale, scaturita dall’inchiesta antimafia “Donne d’onore”. Sono imputati lo stesso Nicola Liardo, il figlio Giuseppe Liardo, Carmelo Martines, Salvatore Raniolo, Monia Greco, Dorotea Liardo, Calogero Greco e Giuseppe Maganuco. Per i pm della Dda di Caltanissetta, Nicola Liardo sarebbe riuscito, anche dal carcere, a gestire estorsioni e droga. Bernascone ha ripercorso i contatti con Liardo e Sequino. L’attenzione, rispondendo alle domande dei pm della Dda di Caltanissetta, si è concentrata soprattutto su un affare che avrebbe dovuto fruttare un notevole ritorno economico a Liardo. Circa 60 mila euro, però, sarebbero finiti ai Rinzivillo. “Attraverso Sequino, i soldi finirono a Salvatore Rinzivillo”, ha continuato Bernascone. Una perdita economica che Nicola Liardo avrebbe cercato di recuperare e il collaboratore, ex imprenditore nel settore metalmeccanico, ha raccontato di minacce e danneggiamenti. Liardo lo avrebbe anche aggredito. “Venne incendiata la mia automobile – ha proseguito il collaboratore – cercarono di rapire mia figlia. Liardo tentò di recuperare i soldi anche attraverso Enzo Morso. Diceva che se non avesse recuperato i soldi, qualcuno avrebbe pagato per quanto accaduto. Diceva di conoscere gli Emmanuello”.
Proprio su Liardo, da tempo detenuto, sul figlio Giuseppe e su Salvatore Raniolo, si chiuse il cerchio, con l’accusa di aver ordinato ed eseguito l’omicidio Sequino, motivato dagli investigatori con ragioni di tipo economico. Sarebbe stata la vendetta per i soldi dell’investimento persi e citati da Bernascone, nella sua deposizione. In aula, è stato sentito l’ex reggente di Cosa nostra locale, Rosario Trubia. “Fino a quando c’ero io – ha detto – Liardo non era affiliato, si muoveva da solo. Lo conosco da quando era bambino”. I pm dell’antimafia hanno chiamato a testimoniare una vittime di intimidazioni, l’imprenditore Manuele Mendola, che per due volte subì spari contro la propria abitazione. I testimoni, sentiti davanti al collegio penale del tribunale (presieduto dal giudice Miriam D’Amore), hanno risposto anche alle domande delle difese, sostenute dai legali Giacomo Ventura, Flavio Sinatra, Davide Limoncello e Carmelo Tuccio.