Dal 7 all’11 gennaio una delegazione di sedici docenti del Liceo Classico e del Liceo delle Scienze Umane di Gela, guidata dal dirigente scolastico Gioacchino Pellitteri, ha partecipato a un corso di aggiornamento sulla didattica che si è tenuto in Bulgaria. I docenti coinvolti, oltre al sottoscritto, sono stati: Diana Antonuccio, Anna Maria Buscemi, Laura Cannilla, Massimo Innorta, Giusy Mirisola, Lucia Putaggio, Rita Salvo, Grazia Scuderi, Rita Spataro, Alba Spoto, Maria Concetta Tasca, Enza Tascone, Teresa Tilaro, Emanuela Tuzzetti e Simonetta Vitale.
Si trattava di uno dei corsi strutturati KA1 organizzati nell’ambito del programma Erasmus+ dell’Unione Europea, nell’occasione tenuto presso i locali dell’ETN Bulgaria Gateway di Sofia dai tutor Diana Pantcheva, Evgeni Mitev e Tihomir Georgiev, pedagogisti trenta-quarantenni esperti di “gamification” e di altre strategie innovative per il potenziamento delle tecniche di insegnamento.
È stata un’esperienza formativa particolarmente coinvolgente e impegnativa, innanzi tutto perché i corsisti sono stati chiamati per cinque giorni e per oltre sei ore al giorno a frequentare lezioni frontali in inglese e a svolgere attività laboratoriali in cui dovevano interagire tra loro e con i formatori esclusivamente in inglese. Il clima estremamente positivo instauratosi con i formatori e con tutte le altre persone del luogo coinvolte ha dato ai docenti gelesi la possibilità di scoprire gli aspetti migliori e più avanzati di un paese ricco di culture e tradizioni che a noi italiani è purtroppo noto assai spesso solo attraverso gli ingenerosi stereotipi denigratori rivelati da espressioni come “maggioranza bulgara” ed “editto bulgaro”, che alludono alla fase della sua storia legata all’ex Unione Sovietica.
Il vecchio gioco della “gamification”
Il corso, come accennato, era incentrato su una serie di modelli didattici connessi al mondo della comunicazione manageriale, alle novità emerse nel campo delle scienze cognitive e all’uso delle nuove tecnologie. Ma poiché la cosiddetta “gamification” vi svolgeva il ruolo di protagonista, è su di essa che vorrei qui soffermarmi, perché si tratta di un caso interessante di novità teorico-pratica carica di passato.
Secondo la classica definizione del suo massimo propugnatore, l’americano di origine taiwanese Yu-kai Chou, la “gamification” è la tecnica che consiste nel trasferire l’impegno e il divertimento investiti tipicamente nel gioco in contesti non ludici come la vita reale e in genere le attività produttive («Gamification is the craft of deriving all the fun and engaging elements found in games and applying them to real-world or productive activities»). Dietro una definizione apparentemente così semplice si cela l’idea che, per esempio nel caso dell’applicazione della “gamification” in classe, il disegno del processo di apprendimento debba focalizzarsi sulla persona e non sulla funzione, nel senso che alla base del gioco, come vedremo più avanti, devono porsi la motivazione e la gratificazione del soggetto coinvolto e non l’efficienza del sistema.
Anche se di “gamification” si parla solo da una decina di anni (il termine è stato introdotto nel 2010 da Jesse Schell, un game designer americano), è chiaro che nel complesso non si tratta di un’idea totalmente nuova, se si pensa alla ben nota glottodidattica ludica e soprattutto alla fortuna che arride da oltre un secolo agli studi antropologici, sociologici, storici ed etologici sul gioco. Se proprio non vogliamo scomodare un filosofo come Nietzsche, il quale faceva coincidere la maturità dell’uomo con il recupero della serietà che da bambini si mette nel gioco (“Al di là del bene e del male”, 94), o tutta l’insistenza di Wittgenstein sui giochi linguistici come attività legate a precise forme di vita, basterà ricordare qui il ruolo svolto dal grande storico olandese Johan Huizinga. Pubblicato alla fine degli anni Trenta del secolo scorso, il suo “Homo ludens” ebbe un ruolo fondamentale nella nobilitazione del concetto di gioco, perché introdusse l’idea in qualche modo rivoluzionaria che tutta la cultura di una data civiltà sia fondata su elementi rituali fondamentalmente ludici. Questo aspetto preciso del libro di Huizinga venne sottolineato in modo particolarmente efficace da Umberto Eco nella sua introduzione all’edizione italiana Einaudi del 1973 (poi ristampata in “Sugli specchi e altri saggi”, Bompiani 1985), dal momento che esso metteva radicalmente in discussione alcuni pilastri del pensiero storicistico europeo, particolarmente cari per esempio al nostro Benedetto Croce, citato allusivamente attraverso il suo inconfondibile lessico filosofico: «Con “Homo ludens” (…) venivano agitati agli occhi del lettore due concetti che a noi oggi sono familiari ma che allora dovevano suonare abbastanza provocatori: una nozione di “cultura” come complesso di fenomeni sociali di cui fan parte a pari titolo l’arte come lo sport, il diritto come i riti funerari, e una nozione di “invariante culturale”, non nuova ai discorsi dell’antropologia culturale di questo secolo, ma così nettamente alternativa rispetto ai principî delle filosofie idealistiche della storia. Apparentata ai suggerimenti del positivismo, (…) la nozione di gioco come costante dei comportamenti culturali affascinava se non altro perché era oltraggiosa – aveva tutta l’aria di uno pseudoconcetto che prendeva violentemente il potere insediandosi nel Palazzo d’Inverno sino ad allora alteramente abitato dall’Estetica, dalla Teoretica, dall’Etica e dall’Economia».
Non è certamente un caso che al libro di Huizinga (oltre che a esperti di cognizione umana come Piaget, Hofstadter, Dennett e altri) faccia riferimento esplicito Andrea Ceriani in quella che è forse la prima monografia sulla “gamification” uscita in italiano: “Gamification. Soluzioni per crescere nella complessità” (KKIEN Publishing International, Milano 2014, ebook). In questo libro, come avverte l’autore nell’introduzione, la “gamification” riguarda “i giochi di simulazione applicati al business” e prevede il ricorso agli strumenti ludici tipici per coinvolgere e motivare i soggetti, come la soluzione di problemi e “il sistema di feedback formalizzato riferito ai risultati raggiunto”, ovvero punti, livelli, ricompense, classifiche, distintivi, regali, ecc. Si pensi ai giochi a premi o alle raccolte punti con cui certe aziende fidelizzano i consumatori, o addirittura alla vera e propria visione del mondo che certi guru del grande “Game” (nel senso di Alessandro Baricco), come ad esempio Steve Jobs prima e Mark Zuckerberg poi, dichiarano di voler condividere con i propri “followers”.
Assai più recente è l’attenzione che alla “gamification” hanno dedicato i pedagogisti, e a tal proposito merita di essere ricordato, per quanto riguarda la letteratura in italiano, almeno il numero monografico del dicembre 2018 della rivista “Bricks”, intitolato “Gamification per la scuola e oltre: strumenti, esperienze e metodologie”. Per capire in modo vivido di cosa si tratti, basta considerare, tra i vari contributi, quello su “Escape Room nella didattica” di Anna Rita Vizzari, una docente di lettere già autrice di pubblicazioni per la casa editrice Erickson di libri e kit multimediali sulla didattica dell’Italiano e delle discipline umanistiche. La studiosa illustra in particolare due progetti Erasmus+ effettuati nell’ambito delle azioni di implementazione del Piano Nazionale Scuola Digitale (PNSD) ad opera dell’Ufficio Scolastico Regionale per la Sardegna. Uno di essi riguardava l’“Escape Room” come esempio di “gamification”: «Che cos’è un’Escape Room? È uno scenario a tema (lo studio di un investigatore, il laboratorio di uno scienziato, un ospedale, un castello, una cripta etc.) da cui bisogna evadere trovando la cosiddetta “chiave finale”, passando per un percorso insidioso e stimolante. Infatti, nel perlustrare l’ambiente delle Escape Room, si trovano: oggetti da aprire (porte, cassetti, scrigni, serrature, lucchetti), elementi con cui aprire (chiavi, codici, attrezzi), indizi ed enigmi, distrattori, falsi indizi, elementi di disturbo. Le sfide e gli enigmi sono della natura più svariata: ci sono persone che riescono meglio negli indovinelli, altri nella manipolazione di oggetti, altri ancora nei messaggi cifrati. Per questo è importante il lavoro in team: ogni membro apporterà il proprio contributo operando non paratatticamente, ciascuno per conto proprio, bensì in sinergia. Fondamentale la comunicazione fra i membri del gruppo: chi trova un lucchetto a 3 cifre deve comunicarlo agli altri, in modo che questi badino alla presenza di codici a 3 cifre. In genere l’Escape Room implica uno storytelling: per esempio, all’inizio del gioco il Game Master può narrare gli antefatti, oppure durante il gioco i giocatori scoprono un diario segreto in cui sono narrati i retroscena. Niente è affidato al caso. (…) Le Escape Room nella didattica vanno realizzate con l’intento non di intrattenere bensì di far acquisire determinate competenze dagli allievi. Come sempre nella progettazione didattica, bisogna individuare obiettivi misurabili ed effettuare riflessioni metacognitive in itinere per vedere come calibrare il percorso: il feedback è importante» (pp. 50-51). Come si vede, esperimenti didattici di questo tipo chiamano in causa componenti ben note della cultura di base di ciascuno, perché una Escape Room non fa altro che simulare situazioni familiarissime come i giochi di ruolo, i giochi di fuga, le cacce al tesoro, nonché i film e i romanzi gialli e di avventura, i thriller e persino le cosiddette cene con delitto.
L’Octalysis di Yu-kai Chou
Il testo ormai classico sulla “gamification” resta però il libro del 2015 di Yu-kai Chou, “Actionable Gamification: Beyond Points, Badges and Leaderboards”, sul quale si sono basati i formatori bulgari. Qui lo studioso asiatico-americano fornisce la versione completa del suo modello di “gamification”, detto “Octalysis” dalla forma ottagonale della sua rappresentazione. Questo modello fa uso di talune acquisizione della psicologia delle motivazioni e delle neuroscienze e individua otto elementi fondamentali (“core drives”) coinvolti nelle attività ludiche che, opportunamente scelti e manipolati, possono guidare nella costruzione di giochi didattici efficaci e coinvolgenti. La “gamification”, così, lungi dall’essere un divertente passatempo competitivo fatto di punti, classifiche e premi, diventa un’attività serissima che affonda le sue radici nelle dinamiche psicologiche fondamentali che guidano il comportamento umano. Ecco gli otto “core drives” dell’Octalysis, così come vengono proposti in italiano nel contributo di A. De Chirico e M. Bordoni incluso nel citato numero di “Bricks” e intitolato “La gamification secondo i principi di Yu-kai Chou e alcune applicazioni nel campo dell’educazione ambientale” (cfr. p. 68):
- senso epico e chiamata (epic meaning & calling);
- progresso e senso di realizzazione (development & accomplishment);
- potenziamento della creatività e feedback (empowerment of creativity & feedback);
- proprietà e possesso (ownership & possession);
- influenza sociale e relazione (social pressure & relatedness);
- scarsità e impazienza (scarcity & impatience);
- imprevedibilità e curiosità (unpredictabilty & curiosity);
- paura della perdita ed evasione (loss & avoidance).
Non è questa la sede per illustrare dettagliatamente ciascuno di questi punti. Il lettore interessato può agevolmente trovare in rete esposizioni dettagliate del modello, anche in italiano. Qui si vuole sottolineare il fatto che ciascuno di questi elementi fondamentali è in qualche modo presente nei giochi, e gli sviluppatori di videogiochi lo sanno bene, come dimostra l’enorme numero di persone “catturate” da questi ultimi. Lo sanno bene anche i progettisti dei social network e di Wikipedia, che non a caso costituiscono gli esempi preferiti dai teorici della “gamification”. Per esempio, i milioni di collaboratori volontari di Wikipedia sono tipicamente motivati dal “senso epico” e dalla “chiamata”, perché si sentono coinvolti in un’impresa titanica disinteressata tutta rivolta al bene dell’umanità.
Per concludere, vale la pena osservare che nella rappresentazione ottagonale di Yu-kai Chou la disposizione dei “core drives” non è casuale e incorpora la possibilità di una doppia lettura strutturata.
1) Gli elementi posti a sinistra (senso di realizzazione, proprietà e scarsità) sono associati all’emisfero corrispondente del cervello, quello considerato più logico e calcolante, e vengono classificati tra i motivatori estrinseci; gli elementi posti sulla parte destra (potenziamento, influenza sociale e imprevedibilità), a loro volta, sono associati all’emisfero corrispondente del cervello, quello considerato più intuitivo e legato alle sensazioni, e vengono classificati tra i motivatori intrinseci. Gli elementi posti al vertice superiore (significato epico) e inferiore (evasione), invece, vengono considerati ibridi, perché contengono forze motivazionali sia intrinseche che estrinseche.
2) Ma c’è una differenza anche tra la metà superiore (“white hat”) e quella inferiore (“black hat”) dell’ottagono, dato che gli elementi della prima sono dei motivatori positivi e quelli della seconda sono motivatori negativi. Come spiegano De Chirico e Bordoni, «un gioco può coinvolgere perché permette di esprimere la propria creatività o perché ci fa sentire abili e potenti. In questo caso vengono sviluppati principalmente i motivatori positivi. Al contrario, i motivatori negativi sono preponderanti in quei giochi in cui si ha sempre paura di perdere qualcosa oppure nel caso in cui ci sono elementi che non possono essere conquistati facilmente, lasciando sempre una traccia di amaro in bocca» (p. 74). Resta inteso che qui “positivo” e “negativo” non implicano giudizi di valore, ma semplici aspetti psicodinamici. È vero che diversi giochi sfruttano le motivazioni negative per creare dipendenza nel giocatore (si pensi alla sconfitta o alla perdita dell’energia vitale), ma la “gamification” a scopi didattici può far leva su queste per una buona causa, per esempio prospettando la perdita di beni reali e desiderabili sia individualmente (p. e. il successo nella vita) che collettivamente (p. e. l’ecosistema).