Gela. Non sarebbe mai esistito un gruppo criminale capeggiato da Peppe Alferi. No al carcere duro. Per questo motivo, verrà chiesto di revocargli il carcere duro. Attualmente, proprio Alferi si trova detenuto nel penitenziario di massima sicurezza di Viterbo, sotto regime di 41 bis. La richiesta arriva direttamente dalla difesa del cinquantaduenne, già condannato in primo grado nell’ambito del processo scaturito dal blitz “Inferis” a diciotto anni e sei mesi di detenzione. Il suo legale di fiducia, l’avvocato Maurizio Scicolone, ha deciso di rivolgersi nuovamente ai magistrati del tribunale di sorveglianza di Roma per opporsi all’eventuale rinnovo del regime del 41 bis. Per la difesa del presunto boss, appunto, non sarebbe mai esistito un gruppo criminale affiancato a cosa nostra e stidda e capeggiato dallo stesso Alferi. Tra i motivi del ricorso, le ammissioni giunte dal collaboratore di giustizia Emanuele Cascino, ex fedelissimo di Peppe Alferi, e le conclusioni di recente formulate dagli investigatori della Dia che, comunque, escluderebbero l’eventuale possibilità di una riorganizzazione del clan.
“Sono un malandrino, non un boss”. Davanti ai giudici che lo hanno processato, Alferi si è sempre definito “un malandrino”, lontano comunque da logiche proprie dei gruppi della criminalità organizzata. Negli scorsi giorni, è stato il figlio del cinquantaduenne, Nunzio, ad escludere che sia mai esistito un clan Alferi. “Gli unici rapporti che ho mai avuto con mio padre – ha detto durante il procedimento di secondo grado che si sta celebrando in corte d’appello a Caltanissetta in merito all’inchiesta “Inferis” – sono stati quelli semplicemente familiari”.