Canotto, “collaboro per dare un futuro migliore ai miei figli, Di Giacomo capo stidda”

 
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Gela. Le sue dichiarazioni hanno contribuito a mettere gli investigatori sulle piste di diversi presunti esponenti della nuova stidda, coinvolti nell’inchiesta antimafia “Stella cadente”. In video-collegamento, da un sito riservato, ha parlato il giovane collaboratore di giustizia Giovanni Canotto. La decisione di collaborare con i magistrati risale a tre anni fa. E’ stato sentito dal collegio penale del tribunale, presieduto dal giudice Miriam D’Amore (a latere Francesca Pulvirenti e Martina Scuderoni). Davanti ai magistrati, si sta svolgendo il dibattimento per gli imputati coinvolti nel blitz. “Ho deciso di collaborare perché volevo cambiare vita e dare un futuro ai miei figli”, ha spiegato rispondendo al pm della Dda di Caltanissetta Matteo Campagnaro. Sono stati acquisiti diversi verbali che riguardano dichiarazioni rese da Canotto nel corso delle indagini. Di recente, è stato condannato per i fatti del blitz “Stella cadente”, dopo aver scelto il giudizio abbreviato. Ha confermato la presenza di un covo che gli stiddari avrebbero usato per nascondere droga e armi. Fu individuato in via Tucidide. “Venni a sapere che c’era stato un sequestro di cinquanta chili di fumo, di un chilo di cocaina e di due pistole”, ha detto. “Dopo la scarcerazione, ero avvicinato alla stidda – ha aggiunto – sì, Tinnirello era il mio padrino, l’ho conosciuto in carcere. Il capo era Bruno Di Giacomo, gli ordini me li dava lui”. Canotto ha già ammesso di essere dietro a diversi danneggiamenti e ad incendi, che avrebbe messo a segno per conto degli stiddari. Rispondendo al pm della Dda, ha spiegato che era attivo nello spaccio di droga. Sulle vicende collegate alla gestione del locale notturno “Malibù”, finite tra le carte dell’inchiesta, ha richiamato il presunto ruolo di Rocco Di Giacomo. “Sapevamo che il locale era suo – ha detto – una volta lo vidi al ristorante. Comunque, c’era sempre il figlio. Io andavo il sabato sera e avevamo i biglietti”. Sono a processo, Giovanni Di Giacomo, Salvatore Antonuccio, Samuele Cammalleri, Alessandro Pennata, Vincenzo Di Giacomo, Benito Peritore, Vincenzo Di Maggio, Giuseppe Truculento, Giuseppe Vella, Giuseppe Nastasi e Rocco Di Giacomo. E’ stato concluso il controesame di uno dei titolari di un bar che denunciò le pressioni e le minacce che sarebbero arrivare da Bruno Di Giacomo.

Il presunto capo stiddaro avrebbe preteso di rifornire il locale, escludendo altri esercenti. La versione resa dal testimone è stata fortemente messa in discussione dalle difese, anche rispetto al credito preteso da Giuseppe Truculento e Giuseppe Vella. Ritengono che non ci fu alcuna estorsione. La società che inizialmente gestiva il locale andò poi in liquidazione. “Non ce la facemmo a proseguire”, ha precisato l’esercente, che adesso sta comunque svolgendo la sua attività in città. In aula, come spesso capita, c’era il presidente dell’antiracket “Gaetano Giordano” Renzo Caponetti, che ha accompagnato a denunciare alcuni degli esercenti che sarebbero stati taglieggiati dagli stiddari, dando i primi spunti investigativi agli inquirenti. Gli esercenti sottoposti a minacce e ritorsioni sono costituiti in giudizio con gli avvocati Valentina Lo Porto (che rappresenta i titolari di due diverse imprese commerciali) e Alessandra Campailla (per conto di un ambulante). Parte civile, ma solo per alcuni capi di imputazione, è anche uno degli imputati, Rocco Di Giacomo. Parti civili sono la Fai e l’associazione antiracket (con l’avvocato Mario Ceraolo). Gli imputati, tra gli altri, sono rappresentati dagli avvocati Flavio Sinatra, Carmelo Tuccio, Ivan Bellanti, Giovanna Zappulla, Cristina Alfieri, Antonio Gagliano, Enrico Aliotta e Antonio Impellizzeri.

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