Gela. Ormai quasi trenta anni fa, i boss cancellarono la sua attività commerciale, mettendolo in ginocchio. Nino Miceli avrebbe dovuto sottostare alle loro richieste, pagare la messa a posto e vendergli auto a prezzi sempre più bassi. La mafia voleva lo “sconto”. Tre attentati incendiari, nell’arco di pochi mesi, devastarono la sua concessionaria. Miceli fu tra i primi a dire basta e a denunciare. Da allora, lui e la sua famiglia sono stati trasferiti in una località segreta e hanno cambiato del tutto vita, a cominciare dalle loro stesse generalità. Sono passati decenni, ma la vicenda è ancora all’attenzione dei tribunali, questa volta civili. La Corte di Cassazione ha deciso che per quanto patito e per le conseguenze prodotte dalla violenza mafiosa scatenata nei loro confronti, anche i due figli vadano risarciti. Sia in primo che in secondo grado, la possibilità di riconoscergli un ristoro economico era stata esclusa. I giudici del tribunale di Gela e quelli della Corte d’appello di Caltanissetta avevano negato che, senza essere direttamente vittime delle estorsioni e delle relative ritorsioni, potessero avere diritto al risarcimento. “Il reato, poi, come qualsiasi altro fatto illecito, può determinare conseguenze dannose – scrivono invece i giudici di Cassazione – non solo nei confronti dei soggetti ai quali esso è primariamente diretto (c.d. vittime primarie), ma anche nei confronti di altri soggetti (c.d. vittime secondarie)”. L’essere stati letteralmente sradicati dalla loro terra di origine e di aver dovuto cambiare, in maniera traumatica, qualsiasi abitudine di vita, con un padre minacciato dai clan, per i giudici sono tutti fattori da tenere in considerazione. Per questa ragione, i magistrati romani hanno annullato il verdetto della Corte di appello, che adesso dovrà rivedere il caso dei figli di Miceli e pronunciare una nuova decisione, questa volta sulla base delle loro indicazioni.
Ma non è tutto perché sia l’imprenditore che la moglie hanno diritto ad un risarcimento che, da un punto di vista quantitativo, vada ben oltre quello che gli era stato riconosciuto. L’intera famiglia ha avviato un’azione legale contro gli stessi boss che li presero di mira. Sono stati citati Davide Emmanuello, Pasquale Messina, Giuseppe Tasca, Vincenzo Nicastro, Salvatore Burgio e Giuseppe Morana. Inizialmente, con i verdetti precedenti, per Miceli erano stati previsti “316.395,30 euro (oltre rivalutazione ed interessi) a titolo di danno patrimoniale, e la somma di euro 100.000,00 (oltre rivalutazione ed interessi) a titolo di danno non patrimoniale”. Per la consorte, invece, “105.466,12 (oltre rivalutazione ed interessi) a titolo di danno patrimoniale, e della somma di euro 100.000,00 (oltre rivalutazione ed interessi) a titolo di danno non patrimoniale”. I legali di entrambi, considerando del tutto insufficiente la quantificazione del danno non patrimoniale, hanno chiesto di rivedere il verdetto. Anche sotto questo profilo, i giudici di Cassazione hanno accolto la ricostruzione. “La liquidazione unitaria del danno non patrimoniale (come quella prevista per il danno patrimoniale) deve essere intesa nel senso di attribuire al soggetto danneggiato una somma di danaro che tenga conto del pregiudizio complessivamente subito tanto sotto l’aspetto della sofferenza interiore (cui potrebbe assimilarsi, in una ipotetica simmetria legislativa, il danno emergente, in guisa di “vulnus” “interno” al patrimonio del creditore), quanto sotto il profilo dell’alterazione o modificazione peggiorativa della vita di relazione – scrivono i giudici in un passo della motivazione – considerata in ogni sua forma ed in ogni suo aspetto, senza ulteriori frammentazioni nominalistiche (danno idealmente omogeneo al cd. “lucro cessante”, quale proiezione “esterna” del patrimonio del soggetto); ne deriva che, non diversamente da quanto avviene in caso di lesione della salute con riferimento al c.d. danno biologico, ogni altro “vulnus” arrecato ad un valore od interesse costituzionalmente tutelato deve essere valutato e accertato, all’esito di compiuta istruttoria ed in assenza di qualsiasi automatismo, sotto il duplice aspetto, della sofferenza morale e della privazione”. Così, anche per Miceli e la moglie la Corte di appello dovrà rivedere la decisione e attenersi a quanto stabilito in Cassazione.