“Stella cadente”, parlano imputati: Cammalleri, “mai estorsioni, incendio al nostro bar”

 
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Gela. Si sono difesi dalle accuse che vengono mosse dai pm della Dda di Caltanissetta. Diversi imputati nel dibattimento scaturito dall’inchiesta antimafia “Stella cadente”, questa mattina davanti al collegio penale del tribunale, hanno risposto alle domande. L’imprenditore Rocco Di Giacomo, che è anche parte civile, ha negato di aver mai sostenuto economicamente i fratelli Bruno Di Giacomo e Giovanni Di Giacomo. “Non avevamo più rapporti. Anzi, ho denunciato perché venni picchiato da Giovanni Di Giacomo, che colpì anche mio genero. Mi tolse i terreni e la società edile “Letizia”. Subii spari alla saracinesca del garage della mia abitazione”, ha spiegato rispondendo soprattutto alle domande poste dal suo legale di fiducia, l’avvocato Antonio Gagliano. Giuseppe Truculento, attualmente detenuto, ha invece escluso di aver fatto pressioni sui fratelli Famà, titolari di un bar in via Romagnoli. Secondo le contestazioni che gli vengono mosse, per far sì che gli esercenti onorassero un credito maturato nei confronti di un fornitore, il licatese Giuseppe Vella (a sua volta imputato), li avrebbe minacciati anche con una pistola. “Nel mio locale non ci sono mai state armi – ha detto Truculento – ci fu una perquisizione effettuata dalla squadra mobile di Caltanissetta, che diede esito negativo. Vella non mi chiese mai di parlare direttamente con i Famà. Io li conoscevo perché mi fornivo da loro per le bibite. A loro ho solo detto che Vella li stava cercando, visto che non rispondevano più al telefono o ai messaggi”. Truculento è difeso dagli avvocati Antonio Impellizzeri e Rosita La Martina. Giovanni Di Giacomo, fratello del boss stiddaro Bruno Di Giacomo (già condannato in primo e in secondo grado per il blitz “Stella cadente”), ha a sua volta risposto alle domande. Ha escluso di aver mai minacciato Rocco Di Giacomo. “Le villette della società erano già state vendute e io ero ancora in carcere – ha spiegato sulla base delle domande poste dall’avvocato Flavio Sinatra che lo difende – non c’è mai stato un litigio con Rocco Di Giacomo. Hanno detto bugie. Io avevo una ditta edile e quando ero fermo lavoravo come operaio nella ditta edile di mio cognato. Non ho mai avuto condanne per mafia e sono assolutamente lontano dalla droga”. Ha precisato anche sui rapporti con un altro imputato, Vincenzo Di Maggio (difeso dal legale Enrico Aliotta). “Lo conosco perché ogni tanto, a Settefarine, prendevamo il caffè insieme. E’ un grande lavoratore. Lavora notte e giorno in campagna”, ha precisato. Si è detto completamente estraneo ad estorsioni e pressioni mafiose anche Samuele Cammalleri, difeso dagli avvocati Carmelo Tuccio e Flavio Sinatra.

“Dopo che persi il lavoro in edilizia, tornai in città – ha detto in aula – mio padre porta avanti un’attività di pasticceria in centro storico, il bar “Monte bianco”. Lavora da venticinque anni con quell’attività. Decisi di occuparmi della pasticceria insieme a lui e ad altri familiari. Facevo le consegne per le forniture ai bar e ai locali della città. Con Bruno Di Giacomo gli unici rapporti riguardano il fatto che mia moglie è la sorella della consorte di Di Giacomo. Ognuno porta avanti la propria vita. I Famà li conosco e non ho mai minacciato nessuno. Furono loro a venire nel nostro bar e a chiedere le forniture. Noi ci occupiamo di fornire prodotti di pasticceria, soprattutto le genovesi. Non formiamo cornetti. Addirittura, le forniture ai Famà proseguirono dopo il mio arresto e vennero interrotte solo successivamente, per mancati pagamenti da parte loro”. Cammalleri, attualmente agli arresti domiciliari, ha ribadito di non essere mai stato coinvolto in attività illecite. “Sono incensurato e non ho mai avuto procedimenti penali a carico”, ha detto ancora. Davanti al presidente del collegio penale, il giudice Miriam D’Amore, ha inoltre segnalato che proprio di recente, sul finire di agosto, il bar ha subito un attentato incendiario. Le fiamme sono state appiccate all’ingresso, mentre lo stesso Cammalleri (che intanto ha ottenuto un permesso per potersi recare a lavoro) e il padre erano all’interno. “Abbiamo sentito un forte rumore e ci siamo accorti che c’erano fiamme e abbiamo subito cercato di spegnerle, con l’acqua”. Sono a processo, inoltre, Salvatore Antonuccio, Alessandro Pennata, Benito Peritore e Giuseppe Nastasi. Parti civili sono gli esercenti sottoposti a minacce e ritorsioni, con gli avvocati Valentina Lo Porto e Alessandra Campailla. Parti civili, infine, sono la Fai e l’associazione antiracket “Gaetano Giordano”. In aula, si tornerà a fine mese, quando saranno i pm della Dda Claudia Pasciuti e Davide Spina ad esporre le loro conclusioni, nel corso di una requisitoria che si preannuncia piuttosto lunga e complessa.

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