Gela. L’assoluzione risale allo scorso anno, con le pesanti accuse di estorsione e mafia che caddero davanti ai giudici del collegio penale del tribunale toscano di Massa. L’operaio gelese Bartolomeo Monachella venne riconosciuto del tutto estraneo sia a presunte richieste estorsive che agli ambienti della stidda. Fu accolta la ricostruzione condotta nel corso dell’istruttoria dibattimentale dal difensore, l’avvocato Rocco Guarnaccia. La vicenda, a dicembre, verrà trattata dai giudici della Corte d’appello di Genova. I magistrati della Dda ligure hanno impugnato la sentenza di assoluzione, dopo aver chiesto la condanna a dieci anni di reclusione, non accolta dal collegio toscano. Secondo gli investigatori e i pm della Distrettuale antimafia, l’operaio diversi anni fa avrebbe preteso somme ulteriori da un imprenditore gelese che lo aveva assunto per i subappalti della “Nuovo Pignone”. Gli investigatori hanno dato seguito alla versione resa da Cristoforo Palmieri, l’imprenditore che si disse minacciato dall’operaio. I soldi che avrebbe dovuto versargli, oltre a quelli della busta paga, secondo l’ipotesi d’accusa erano destinati al gruppo degli stiddari. Una linea che non ha retto in giudizio. Diverse testimonianze, anche di altri lavoratori, hanno escluso che Monachella avesse mai minacciato o preteso ulteriore denaro. La difesa ha spiegato che l’operaio avrebbe spesso segnalato violazioni e presunti tentativi di alterare i costi dei lavori. La denuncia dell’imprenditore, quindi, sarebbe stata una possibile ritorsione.
L’assoluzione sembrava aver chiuso la vicenda, ma i pm hanno deciso di proporre ricorso. A dicembre, l’operaio sarà nuovamente chiamato a difendersi, partendo dal giudizio favorevole di primo grado. I magistrati della Dda, invece, sono convinti, anche a seguito di intimidazioni denunciate da Palmieri (a sua volta interessato da indagini sul fronte della criminalità organizzata), che la stidda volesse infiltrarsi nei subappalti del sito produttivo toscano.