Torino. Due colpi di pistola e poi il calcio dell’arma per finirlo definitivamente. Tre anni fa, nelle campagne piemontesi di Pombia, Antonio Lembo e Angelo Mancino avrebbero usato anche una vecchia batteria d’auto per uccidere il trentatreenne gelese Matteo Mendola. La procura generale, in appello, ha chiesto di condannarli. Trent’anni a Lembo, confermando il verdetto di primo grado, e diciassette a Mancino. Il gup del tribunale di Novara li condannò a trenta anni ciascuno di reclusione, al termine del giudizio abbreviato. Lembo, difeso dall’avvocato Gabriele Pipicelli, dopo l’arresto ammise di essere il killer e tirò in ballo, come presunto mandante, un altro gelese trapiantato nel nord Italia, l’imprenditore edile cinquantaquattrenne Giuseppe Cauchi, assolto però dalla Corte d’assise di Novara. L’eventuale riduzione di pena al quarantenne Mancino si deve al riconoscimento delle attenuanti generiche, così come chiesto dalla procura generale davanti ai giudici della Corte d’assise d’appello di Torino. Secondo gli investigatori piemontesi, Mendola potrebbe essere stato ucciso per presunti dissapori, forse maturati negli ambienti della piccola criminalità dell’hinterland lombardo. Il giovane ammazzato e la sua famiglia vivevano stabilmente a Busto Arsizio, in provincia di Varese, così come Lembo e Cauchi.
L’imprenditore assolto in primo grado (difeso dagli avvocati Flavio Sinatra e Cosimo Palumbo) ha sempre respinto le accuse, spiegando di non aver avuto alcun motivo per ordinare l’omicidio. Nel corso della prossima udienza, in Corte d’assise d’appello a Torino, sarà la volta delle difese di Lembo e Mancino (rappresentato dagli avvocati Fabrizio Cardinali e Alessandro Brustia). I familiari della vittima sono parti civili.