Nell’inaugurare qui una rubrica in cui chi scrive accetta la sfida di prendere periodicamente la parola per commentare fatti di varia natura, vale forse la pena partire proprio da un rapido esame dell’atto in sé di intervenire con la parola. Le tecnologie della comunicazione oggi a nostra disposizione, se ci pensiamo un attimo, sollevano il problema esattamente opposto rispetto a quello da cui muoveva Michel de Certeau nel saggio intitolato proprio “La presa della parola”, relativo alla rivoluzione rappresentata dal Maggio francese, cioè da quel Sessantotto di cui quest’anno ricorre il cinquantesimo anniversario. Mentre allora, per i giovani universitari, parlare a nome proprio in un tempio della cultura ufficiale come la Sorbona costituì un atto letteralmente inaudito, oggi, soprattutto sui social network, assistiamo alla metastasi inarrestabile di quell’atto, di cui sono sintomi espressivi formule piuttosto dure come “gli imbecilli di Eco”e “i webeti di Mentana”. Attenzione, però. Non si vuole qui denigrare snobisticamente la facoltà di chiunque, per quanto culturalmente sprovveduto, di lasciar traccia sul web della propria opinione più estemporanea e sgangherata, perché il problema riguarda anche fior di intellettuali e giornalisti. Si potrebbero citare innumerevoli esempi recenti in cui a fare la figura del “webete” tipico sono stati certi guru dell’informazione e della politica cui, per altri versi, non dispiacerebbe limitare la libertà di espressione del cosiddetto uomo qualunque (si vedano, ad esempio, certi commenti imbarazzanti di taluni esponenti dell’intellighenzia in merito alla polemica su Claretta Petacci scatenata da una versione manipolata ad arte di una battuta del comico Gene Gnocchi).
Quello che bisogna tenere presente, quando si affronta questo tema, è ciò che ormai da decenni ci dicono le scienze cognitive sull’evoluzione di un organo come il cervello, uno dei cui compiti fondamentali di sopravvivenza è quello di riconoscere schemi significativi nel caos percettivo dell’ambiente per permettere al suo portatore di prendere decisioni rapide (per esempio di fuga o attacco). Questo spiega, tra le molte altre cose, la nostra propensione irrefrenabile a costruire e socializzare narrazioni ordinate sulla base di un numero quasi sempre insufficiente di informazioni. Si tratta di un istinto benedetto, perché è alla base della nostra cultura, ma esso porta con sé alcune spiacevoli controindicazioni, tra cui quella di parlare spesso a vanvera. Nessuno ne è immune e a fare la differenza è solo la consapevolezza intellettualmente matura del rischio. Un caso da manuale, che meriterebbe di essere studiato per anni nei futuri seminari di psicologia e sociologia della comunicazione, è quello dei recenti fatti di Macerata, nella cui bolla mediatica siamo ancora immersi. Si pensi, infatti, all’immediata polarizzazione del dibattito pubblico, prima ancora che si conoscessero le reali motivazioni del presunto “vendicatore” dichiaratamente fascioleghista. Grazie anche al fatto che ci troviamo in piena campagna elettorale, da sinistra è stato subito lanciato l’allarme del terrorismo nero a sfondo politico e razziale (antifascismo di maniera), mentre da destra si è cercato di minimizzare sostenendo che si tratta solo del gesto folle di un isolato esasperato dall’eccessiva presenza di immigrati nelle nostre città (si pensi all’imbarazzo di trovarsi il terrorista in casa dopo anni di campagne politiche allarmiste basate sullo spauracchio del terrorista islamico). Ora, può ben darsi che a posteriori una delle due narrazioni risulterà corrispondente al vero, ma quello che occorre rilevare è che entrambe erano infondate nel momento della loro generazione spontanea. Nei giorni successivi, infatti, sono emersi fatti – per esempio in relazione al contesto e alla dinamica stessa della morte orribile della ragazza di Macerata che il “pistolero” intendeva vendicare sparando a caso sugli immigrati di colore – che dimostrano quanto fosse semplicistico e irresponsabile sbandierare subito narrazioni politiche definitive dell’accaduto.
Ecco, è proprio sulla base di una piena consapevolezza metacognitiva dei rischi di fraintendere (e di essere frainteso) cui si espone chi si assume la responsabilità di prendere la parola che questa rubrica di riflessione in pubblico può prendere il via.