La Magarìa di Camilleri su Tiresia a Siracusa

     
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    Chi ha potuto assistere, la sera dell’11 giugno, alla “Conversazione su Tiresia” di Andrea Camilleri al teatro greco di Siracusa porterà sempre con sé il ricordo di una serata magica, a una vera e propria “magarìa” artistica. Entrato in scena alle 21.12 appoggiandosi da dietro alle spalle della sua fedele assistente Valentina Alferj come uno dei ciechi di Pieter Bruegel il Vecchio, e accompagnato dalle note di “The Cinema Show” dei Genesis, i cui versi su Tiresia apparivano sul grande muro-schermo che costituiva l’elemento scenico più vistoso ideato dal regista Roberto Andò, Camilleri ha parlato ininterrottamente per un’ora e mezza calandosi nei panni del mitologico indovino cieco e raccontando le proprie innumerevoli apparizioni poetiche, teatrali, narrative, musicali e cinematografiche, da Omero a Woody Allen, dal quale in chiusura, a mo’ di titoli di coda, sono state prese alcune sequenze del film “La dea dell’amore”. A colpire il pubblico, che riempiva fino all’inverosimile la cavea del teatro, è stato l’incredibile miscuglio di grazia e gravità del monologo di Camilleri, che ha alternato momenti di irresistibile ilarità (se Ulisse ha impiegato vent’anni per tornare dalla moglie, è segno che tutta questa voglia non ce l’aveva…) a momenti di altissima tensione drammatica (il ricordo dell’Olocausto, un male così assoluto da non rientrare strutturalmente tra le cose che un povero indovino cieco può prevedere).

    Pietre eterne e pietre miliari
    Il momento del monologo che più ha commosso e che ha scatenato una standing ovation interminabile è stato quando, in chiusura, Camilleri ha spiegato cosa ci facesse lì un venerato vegliardo di quasi 93 anni, ormai gravemente debilitato e per di più cieco. Che bisogno ha il più popolare scrittore italiano di sempre di cimentarsi in un’impresa così impegnativa, che lo vedeva per la prima volta interprete di un proprio testo? Camilleri, da docente e da regista, ha frequentato le “scene” teatrali, radiofoniche e televisive per svariati decenni e pertanto conosce bene sia i trucchi sia soprattutto i pericoli del mestiere. Ma una cosa è mettere in scena e un’altra è entrare in scena. Persino i più grandi attori dichiarano sempre che recitare al teatro greco di Siracusa ha in sé qualcosa di spaventoso che intimidisce e rischia di scoraggiare chiunque, perché si ha davanti un ciclopico muro umano che nulla ha a che vedere con il normale pubblico dei teatri. Eppure Camilleri ha accettato la sfida, regalando al pubblico un’esperienza indimenticabile soprattutto quando ha spiegato il motivo, per così dire, metafisico ed esistenziale della sua impresa nell’isola che gli ha dato i natali e che lui ha contribuito come pochi altri a far apprezzare in tutto il mondo. Ecco le sue parole così come si possono leggere nel testo del monologo stampato per l’occasione dall’editore Sellerio (le differenze con le parole effettivamente recitate sono lievi), nelle quali l’identificazione Camilleri-Tiresia è ormai completa: «Forse vi state chiedendo la vera ragione per la quale mi trovo qui. Ho trascorso questa mia vita ad inventarmi storie e personaggi, sono stato regista teatrale, televisivo, radiofonico, ho scritto più di cento libri, tradotti in tante lingue e di discreto successo. L’invenzione più felice è stata quella di un commissario. Da quando Zeus, o chi ne fa le veci, ha deciso di togliermi di nuovo la vista, questa volta a novant’anni, ho sentito l’urgenza di riuscire a capire cosa sia l’eternità e solo venendo qui posso intuirla. Solo su queste pietre eterne. Ora devo andare» (p. 55).
    La cavalcata di novanta minuti di Camilleri attraverso i secoli è un fuoco d’artificio di citazioni di ogni tipo che mostrano un Tiresia sempre diverso, ora giovane trasformato in donna per aver ucciso un serpente femmina mentre si accoppiava ora detective oracolare nel caso Edipo, ora maestro di truffe ora venditore di cerini a Brooklyn, ora poeta ora ciarlatano, ora aruspice ora astrologo, ora “guardone insaziabile” di dee nude ora giovane chimico ad Auschwitz, ora vecchio con le mammelle di donna avvizzite ora personaggio cinematografico con la faccia, assegnatagli da Pasolini, di Julian Beck, “il creatore del mitico Living Theatre”. I principali autori di riferimento sono molti giganti della letteratura e della filosofia occidentali: Omero, Sofocle, Callimaco, Ovidio, Orazio, Seneca, Stazio, Luciano, Clemente Alessandrino, Boezio, Dante, Poliziano, Milton, Hofmannsthal, Apollinaire, Cocteau, Virginia Woolf, Ezra Pound, T. S. Eliot, Dürrenmatt, Pavese, Pasolini e Primo Levi. La parola di Camilleri si muove lieve, potremmo dire con leggerezza calviniana, tra tutte queste pietre miliari della nostra cultura, e non di rado l’esattezza della citazione è sacrificata consapevolmente sull’altare delle esigenze narrative. Se infatti si prova a fare qualche controllo, emergono delle discrepanze interessanti che illuminano il modo di procedere di Camilleri, nonché i processi mentali stessi del suo lavoro di interpretazione. Un caso curioso è per esempio quello di Orazio. Camilleri si richiama alla satira II.5, quella in cui il poeta romano immagina di riscrivere in chiave dissacrante il dialogo tra Tiresia e Ulisse svoltosi nel regno dei morti e raccontato da Omero nel libro undicesimo dell’“Odissea”. Poiché Camilleri parla a nome di Tiresia, egli mostra grande risentimento nei confronti del poeta, accusandolo addirittura di diffamazione laddove dipinge l’indovino come uno che dà ad Ulisse consigli su come spennare un vecchio ricco per recuperare la “roba” che i Proci gli stanno mangiando a Itaca. Ecco perché nel testo detto Orazio è chiamato per due volte “poetastro”, mentre nel testo scritto è definito “poeta bugiardo” e “pseudo poeta”. Tutto ciò, naturalmente, ha poco a che vedere con il testo oraziano, dove invece, come ci spiegano i commentatori, ad essere preso di mira era il malcostume dei vecchi ricchi romani senza figli che facevano testamento a favore di estranei incontrati occasionalmente.

    Tiresia ad Auschwitz
    Assai più interessante è l’operazione interpretativa che Camilleri compie sul testo di Primo Levi. Ecco le sue esatte parole, declamate con una solennità che, nel silenzio tombale nel teatro strapieno, ha fatto venire i brividi agli spettatori: «Vorrei veramente concludere con Primo Levi, il quale, in un suo libro intitolato “La chiave a stella”, mette un racconto dedicato a me, intitolato appunto “Tiresia”. In questo racconto egli narra a un suo amico come nell’orrore profondo del campo di concentramento nazista rischiò una metamorfosi ben peggiore della mia, cioè il tramutare da uomo a non uomo. Perché era questo che i nazisti volevano: che i loro nemici diventassero bestie, un numero tatuato su un braccio. Io, Tiresia, non riuscii a prevedere quell’orrore…». Il testo a stampa, invece, è il seguente: «E poi Primo Levi, con il quale nel 1966 passai una giornata indimenticabile a Torino, che a me intitolò un racconto, “Tiresia” appunto, compreso nel volume “La chiave a stella”. Lì, Levi racconta che nell’orrore del campo di concentramento nazista rischiò una metamorfosi peggiore della mia, quella da uomo a non uomo, e che a salvarlo fu proprio la poesia. Devo confessarvi che mai io previdi quell’orrore…» (pp. 53-54).
    Come si vede, per ragioni puramente retorico-narrative, trattandosi del momento culminante del monologo, Camilleri offre al pubblico il Levi più noto e tragico, quello di “Se questo è un uomo”, le cui pagine celebri sul canto di Ulisse dell’“Inferno” sembrano chiamate in causa esplicitamente dal riferimento alla poesia come strumento per restare umani ad Auschwitz. Se però si va a rivedere il testo originale de “La chiave a stella”, ci si accorge che l’identificazione con Tiresia lì non è suggerita a Levi dall’esperienza del Lager; almeno non direttamente. Dialogando con l’operaio montatore Libertino Faussone, Levi vuole spiegargli che lui, per formazione, conosce sia il mondo del lavoro “manuale”, in quanto chimico, sia il mondo del lavoro “intellettuale”, in quanto scrittore, e questo lo autorizza a considerarsi competente nel classico dibattito sulle cosiddette “due culture”, quella scientifica e quella umanistica;. Esattamente come Tiresia, considerato da Zeus ed Era esperto di orgasmo femminile e maschile per essere stato anche donna, peraltro piuttosto libertina, come ha sottolineato con notevole divertimento Camilleri.
    Questo vuol dire che Camilleri ha “tradito” o frainteso il testo di Levi? Non esattamente. Lo stesso Levi definisce “stiracchiato” il paragone proposto in quelle pagine del suo libro del 1978, ma è interessante leggere il passo seguente, che per via di oscura metafora probabilmente giustifica la lettura camilleriana: «forse me n’ero accorto solo raccontandogli quella storia, un po’ Tiresia mi sentivo, e non solo per la duplice esperienza: in tempi lontani anch’io mi ero imbattuto negli dei in lite fra loro; anch’io avevo incontrato i serpenti sulla mia strada, e quell’incontro mi aveva fatto mutare condizione donandomi uno strano potere di parola: ma da allora, essendo un chimico per l’occhio del mondo, e sentendomi invece sangue di scrittore nelle vene, mi pareva di avere in corpo due anime, che sono troppe» (ediz. RCS 2018, p. 50). Ecco, dunque, un’ipotesi sul modo di procedere di Camilleri in questo caso. Volendo rendere omaggio al Tiresia di Levi e dare nel contempo una conclusione emotivamente carica al proprio monologo, ha offerto al pubblico il Levi che tutti conoscono, decodificando in tal senso il passo citato, nel quale si allude oscuramente a divinità in guerra tra loro e a serpenti chiamati a svolgere il lavoro sporco dello sterminio.

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