Prendo spunto dalla recente visione della commedia “Perfetti sconosciuti” di Paolo Genovese, al momento nelle sale cinematografiche, per porre a me stessa e a voi lettori spunti di riflessione su importanti temi sociali e filosofici.
Il film fotografa una cena tra vecchi amici in cui gli smartphone – definiti, a proposito, “scatole nere” delle nostre vite- diventano protagonisti assoluti di un disvelamento di segreti inconfessabili dei vari personaggi, apparentemente molto “intimi” tra loro ma di fatto “sconosciuti”.
Tralasciando ogni considerazione circa la svolta epocale (paragonabile alla scoperta del fuoco) rappresentata dall’invasione delle nuove tecnologie di comunicazione nella nostra vita che merita un approfondimento a sé stante -attesa la pregnanza massiccia che esse imprimono alle nostre azioni e alle nostre emozioni, ormai totalmente schiave di amici immaginari rinchiusi dietro le sbarre di uno schermo piatto che rappresenta “l’isola che non c’è” ma che c’è – vorrei piuttosto concentrare la mia attenzione sui limiti oltre i quali un segreto può dirsi ripugnante per la coscienza di un uomo.
E’ davvero così inconcepibile mantenere dei segreti con il partner o con gli amici senza per questo sentirsi invasi da sensi di colpa?
L’uomo, prima ancora di strutturarsi come “essere sociale”, è innanzitutto “individuo” che nasce e muore solo e il cui obiettivo precipuo è stare bene in questa vita “terrena”, così intrisa di mistero.
E il “mistero” altro non è che una verità irraggiungibile dalla ragione umana e quindi una verità-non verità perché destinata a rimanere oscura, indecifrabile, segreta.
In altre parole ciò che si disvela nella vita di ognuno di noi sono unicamente le manifestazioni caduche ed effimere della stessa, rimanendo totalmente “segreto” il senso dell’esistenza tout court.
Se, quindi, la vita stessa, ontologicamente intesa, è per l’umanità tutta un atto di disvelamento progressivo e immanente di verità, che via via prende forma e luce differente per ogni singolo essere umano, rimanendo comunque oscuro il suo “nocciolo duro”, è ben giustificata la pretesa da partedi ogni singolo essere umano a mantenere un luogo intimo di riservatezza e segretezza che troverà manifestazione ed estrinsecazione “sociale” laddove e nella misura in cui decide di condividerlo coi suoi simili.
Portando alle estreme conseguenze questa considerazione, non è inverosimile affermare che per ogni essere umano mantenere un segreto, lungi dall’incarnare un tradimento nei confronti dei suoi simili, rappresenta piuttosto un atto di estrema fedeltà alla propria vita interiore.
E’ ovvio che tale conclusione è ineccepibile qualora consideriamo l’uomo come essere “individuo”; andrebbe invece rivisitata qualora lo consideriamo come “essere sociale” posto che la libertà di ciascuno trova inevitabili limiti in quella degli altri essendo estremamente dissimili i profili di moralità ed etica che gli uomini maturano nel corso della propria esistenza e che dipendono da variegati fattori, non da ultimo dai vari condizionamenti e correlativi giudizi sociali che non ne influenzano solo i comportamenti ma anche la struttura emozionale e quindi la psiche.
Come ci insegna Woody Allen con la sua pellicola “Sogni e Delitti” in cui tratta ampiamente i temi della colpa e della coscienza, la coscienza è presente in gradazioni diverse negli uomini, sempre che si abbia chiaro cosa si intenda per coscienza.
A tal proposito vorrei menzionare il filosofo francese Emmanuel Lévinas secondo cui l’essere rinchiuso nel proprio “io” è l’origine di tutti i mali e la nostra vita ha un senso in quanto esser-per-l’altro: è nell’essere ostaggio dell’altro che il proprio Sé può paradossalmente riacquistare dignità.
La vita della coscienza – scrive l’autore – è “una relazione del Medesimo con l’Altro in cui l’Altro si riduce al Medesimo e si spoglia della sua estraneità, in cui il pensiero si rapporta all’altro, ma in cui l’altro non è più altro in quanto tale, in cui è già proprio, è già mio”.
A voler trarre da questo pensiero tutte le conseguenze del caso non ci sarebbe spazio per segreto alcuno perché l’autonomia e la libertà di ciascun essere umano si esprimerebbe solo in quanto rappresentazione di sé all’Altro in una sorta di magma indistinto tra il sé e l’Altro, per cui solo in questa compenetrazione si esprimerebbe l’etica.
Ritengo, tuttavia,che siamo troppo umani e quindi fragili per manifestarci completamente all’altro e il segreto diventa, pertanto, un elemento necessario per tendere al Divino, per rimanere sempre in uno stato desiderante che ci permetta di evadere dal mondo conosciuto e di sognare la libertà.
Concludo la mia breve riflessione affermando che, a mio parere, a renderci liberi non è tanto l’oggettivazione del segreto in sé (la cui realizzazione, anzi, ci rende di nuovo schiavi) quanto piuttosto il desiderio di un luogo di segretezza custodito gelosamente nella nostra coscienza da cui tutto il mondo altro dal sé rimane escluso.
Franca Gennuso