Gela. Sono trascorsi ventitré anni da quando, nel maggio del 1992, un operaio alle dipendenze di una società edile precipitò rovinosamente nell’area dell’impianto di desolforazione gasolio dell’isola otto dello stabilimento Eni di contrada Piana del Signore, riportando gravissimi traumi.
Non sono bastati tre gradi di giudizio. Dopo tre gradi di giudizio in sede civile, destinati ad accertare le responsabilità di quei fatti, il caso ritornerà di nuovo davanti ai giudici della corte d’appello di Caltanissetta. A disporre l’annullamento della loro precedente decisione sono stati i magistrati della corte di cassazione. In base alla sentenza emessa a seguito del ricorso presentato dal legale dell’operaio, i giudici d’appello non sarebbero riusciti, in maniera chiara, a ricostruire la dinamica del grave incidente sul lavoro né la catena delle responsabilità. Un procedimento civile lunghissimo quello che ha coinvolto non solo il lavoratore rimasto ferito ma anche il gruppo Eni. Originariamente, il legale dell’operaio chiedeva un risarcimento danni superiore agli 800 milioni delle vecchie lire. A conclusione del giudizio di primo grado, i magistrati del tribunale riconobbero solo in parte la responsabilità di Eni. Per il resto, venne addossata allo stesso operaio che ottenne un risarcimento da 85 mila euro. In secondo grado, invece, la decisione venne completamente ribaltata. I giudici della corte d’appello di Caltanissetta esclusero qualsiasi responsabilità dell’azienda Eni e imposero all’operaio di restituire quanto già ottenuto degli 85 mila euro. A questo punto, è scattato il ricorso in Cassazione che riapre i giochi.
La cassazione chiede maggiore chiarezza. Secondo i magistrati romani, la corte nissena non avrebbe ricostruito nel migliore dei modi la catena delle responsabilità. L’operaio precipitò dal ponteggio che stava smontando insieme a due colleghi oppure dal piano di calpestio dell’impianto di desolforazione? Un particolare essenziale per definire l’intera vicenda e capire se a rispondere, anche economicamente, dovrà essere Eni oppure l’azienda appaltatrice per la quale lavorava l’operaio. Inoltre, nelle motivazioni rese note dai magistrati romani, si chiede di verificare in maniera più approfondita il contenuto del contratto d’appalto stilato da Eni e dalla società edile. A ventitré anni di distanza, sarà necessario un nuovo giudizio.