Gela. Ho appena finito di leggere un libro di un autore che non conoscevo affatto.
Non l’avrei mai comperato, se non mi fosse stato segnalato dalla signora Felicia Randazzo: «Deve assolutamente leggerlo!» mi disse una sera dopo che avevo prenotato La bellezza di Roger Scruton e Figure del mito di James Hillman.
Mi aspettavo, ovviamente, di trovare qualcosa di buono in questo libro, ma mai che mi sarei entusiasmato come poche volte prima. Mi era capitato con I quattro quartetti di Thomas Eliot, con Sul lettino di Lacan di Pierre Rey, con Quando i lillà di Walt Whitman, con i Sonetti di Shakespeare, con qualche poesia di Keats, con Il don Giovanni di Mozart. L’originalità del libro consiste nel fatto che l’autore non descrive semplicemente ma soprattutto incrocia la vita dei singoli, straordinari personaggi (dovrei dire che s’intrufola nella vita dei personaggi) e ne diventa co-protagonista.
E, a tratti, ne diventi co-protagonista anche tu. Thomas Love Peacock diceva che un libro di cui non si ricorda nulla, non è un libro, ma trastullo. Peacock non ha previsto il caso di un libro che possa essere a tratti anche divertente, e parliamo di godimento estetico, e nel contempo lasciarti tanto da ricordare. Questo libro rientra tra quelli che vorresti non finissero mai, a fronte di altri che non avresti mai voluto cominciare per il peso che comporta la lettura persino di una singola pagina. Non parlerò delle storie e del loro contenuto, peraltro raccontate in maniera straordinariamente seducente dall’autore, anche per non privare il lettore del piacere della scoperta. Parlerò, semmai, degli originali e sorprendenti accostamenti di personaggi, talvolta lontani nel tempo e nello spazio; personaggi che molto spesso hanno avuto destini quasi sovrapponibili. Così è stato per Isaac Babel, Federico Garcia Lorca e Pier Paolo Pasolini, tre esemplari che hanno lasciato impronte indelebili nella letteratura mondiale.
Tre poeti, tre vite prematuramente spezzate dalla barbarie umana.
L’autore sottolinea come qualunque omicidio debba sempre considerarsi un reato orrendo, ma quello del poeta lo è magari ancor di più, perché oltre ad uccidere l’essere umano, si cancellano pure gli infiniti mondi che la loro immaginazione avrebbe potuto ancora creare, e le infinite possibilità di vita che ognuno di essi poteva lasciarci intravedere.
Che cosa accomuna Virginia Woolf e Cesare Pavese? Solo la volontà di chiudere con la vita? L’autore sa dirci qualcosa in più di quanto se ne è sempre saputo? Robert Walser, al pari di Ettore Maiorana, ha davvero attuato il suo capolavoro, ossia quello di snobbare il consorzio umano, al di là dei motivi che l’hanno giustificato? Brahams, il genio, e Clara Wieck Schumann, moglie del suo pigmalione Robert Schumann, hanno creato una sorta di prototipo di amore possibile solo se avversato, quasi proibito, eppure eternamente platonico? Che cosa spinge un pittore talentuoso come Cecco, al secolo Francesco Boneri, a sacrificare la sua arte a vantaggio di un genio come quello di Caravaggio? Perché Bill Evans, il pianista bianco che «faceva cantare il silenzio e sapeva suonare anche le note che non c’erano», faceva impazzire anche i neri? Apro una parentesi.
C’è stato un periodo della mia vita in cui sono stato un accanito fan della musica jazz, tanto da collezionare long plain su long plain e successivamente CD. La mia passione è sempre stata soprattutto per Benny Goodman, Chet Baker, Miles Davis, John Coltrane, Charlie Parker e, a tratti, Duke Ellington e Ornette Coleman. Beh, Fabrizio Coscia, autore del libro, mi ha riportato alla mente il talento inimitabile di Bill Evans. Sono andato immediatamente a risentire Kind of blue, considerato dalla critica la Bibbia del jazz e da Jimmy Cobb, celebre batterista del gruppo di Miles Davis, l’opera realizzata in paradiso.
Nelle storie di Fabrizio Coscia percepisci, anche quando parla di altro, che è un innamorato quanto conoscitore della musica, al punto da confessare che se avesse dovuto scegliere di essere qualche grande artista del passato, avrebbe voluto essere né Shakespeare, né Michelangelo, né Mozart. Ma solo William John Evans, detto Bill. Le ragioni sono piuttosto semplici. Bill Evans, dice l’autore, è musica allo stato puro. La consacrazione di Bill Evans talento straordinario avviene nel 1959, quando entra a far parte della corte dell’imperatore Miles Davis assieme nientemeno che a John Coltrane, Jimmy Cobb e Julian Cannonball Adderley per la stesura di quella che sarà un’opera monumentale, ovvero Kind of blue, risultato poi l’album jazz più venduto di tutti i tempi. Il contributo di Bill Evans è stato sorprendentemente decisivo per l’innovazione che ha apportato al jazz, maggiormente se si pensa che egli ricevette gli spartiti al momento stesso dell’esecuzione di Kind of Blue. Ma tante altre cose dovevano ancora succedere per Bill Evans. Tra il 1960 e il 1961, Bill Evans regala all’umanità Portrait in jazz (Premio Grammy Hall of Fame Award) ed Explorazions, due autentiche gemme.
Ma l’avvenimento che ha definitivamente collocato Bill Evans nell’Olimpo dei grandissimi avviene in una serata magica al Village Vanguard di New York il 25 giugno del 1961 nella quale Bill Evans, coadiuvato da due talenti come Scott LaFaro al contrabasso e a Paul Motian alle percussioni, realizza Sunday the Village Vanguard e, soprattutto Waltz for Debby, considerato il suo capolavoro assoluto. Nonostante la morte prematura, Bill Evans compose 101 album. Riporto uno dei commenti a quell’esecuzione “Un album incantevole sotto ogni punto di vista. Sonorità pure di una raffinatezza e uno stile unico. Un’esecuzione che rasenta la perfezione assoluta tanta era la sinergia del trio in quella serata”. Fatto l’omaggio all’autore del libro e al suo Bill Evans, possiamo anche chiudere la parentesi e continuare con qualche altra storia. C’è un filo dorato che lega Jan Vermeer a John Keats e a Kafka? Vermeer, autore del celebre quadro Veduta di Delft che Proust considerò il più bello del mondo, era solito riprendere donne che leggevano lettere, colte in un momento di sospensione e sempre in attesa che qualche cosa dovesse accadere. Quanti momenti di sospensione e di attesa hanno vissuto Keats e Kafka per le lettere di Fanny Brawne e di Milena Jesenska? Destini incrociati o geometria del destino? Cosa hanno sortito gli incontri di Marcel Proust e James Joyce da un lato e di Lev Tolstoj e Anton Cechov dall’altro? Ciascuno ha saputo cogliere aspetti dell’indole dell’altro? Dalle opere di ciascuno, si possono fare deduzioni sugli altri personaggi? Perché Arthur Rimbaud a soli vent’anni decide di dire addio alla letteratura, ciononostante si è assicurato un posto di rilievo tra gli immortali? A questo punto mi fermo, non prima però di avere giustificato il titolo del libro Soli eravamo e altre storie. «Soli eravamo» sono le parole che Francesca nel V canto dell’inferno dice a Dante, narrando del suo travolgente amore per Paolo, prima della fine orrenda dei due amanti da parte del fratello di lui, tradito. Paolo e Francesca muoiono dunque per mano di Gianciotto, ma chi ha architettato tutto il dramma se non un capriccioso Eros facendo conoscere a Francesca la dolcezza infinita del primo bacio? Non c’è niente da fare! Gli amanti, accecati dalla passione, sfidano la sorte.
E non c’è pericolo, compreso quello della morte, che induca due amanti a desistere, a dissuaderli dal rinunciare al piacere più dolce e prezioso e inebriante che la vita sa offrirci. Ora davvero mi fermo qui perché l’arte è solo nelle pagine di Fabrizio Coscia. Tornerò certamente a rileggere le sue storie perché nelle storie importanti c’è sempre qualcosa da scoprire e da cui trarre godimento.