Gela. Due operai dell’indotto Eni, dopo un trentennio di lavoro tra gli impianti di raffineria, sarebbero morti perché costantemente esposti all’amianto. I pubblici ministeri Fernando Asaro e Mario Calabrese l’hanno spiegato nel corso di una requisitoria che ha fatto luce su quello che viene considerato un nesso, secondo i magistrati, ormai appurato. Manager della multinazionale e imprenditori dell’indotto, tutti a processo, non avrebbero adottato le necessarie misure di prevenzione, favorendo l’esposizione dei lavoratori alle fibre killer. Per la loro morte, sono state chieste condanne. Quattro anni di reclusione ciascuno per Antonio Catanzariti, Gregorio Mirone, Giancarlo Fastame, Giorgio Clarizia, Ferdinando Lo Vullo, Luciano Di Buò, Giovanni La Ferla, Pasqualino Grandizio, Arturo Borntraeger, Giovanni Calatabiano, Giuseppe Farina e Vito Milano. Tre anni, invece, per Giuseppe Genitori D’Arrigo e Salvatore Vitale, ritenuti responsabili solo di un caso di omicidio colposo. A seguito del tempo ormai trascorso, il pm Calabrese ha richiesto invece il non doversi procedere, per intervenuta prescrizione, nei confronti degli imputati che erano ritenuti collegati alle patologie che hanno colpito altri tre ex operai dell’indotto. In questo caso, l’accusa mossa era di lesioni colpose. A processo, c’erano anche Salvatore Di Guardo, Gioacchino Gabbuti, Francesco Fochi, Antonio Borgia, Pier Giorgio Covilli, Giancarlo Picotti, Cesare Riccio, Francesco Cangialosi, Salvatore Maranci, Orazio Sorrenti, Vincenzo Piro, Aurelio Faraci, Giuseppe Di Stefano, Giuseppe Lisciandra, Salvatore Di Dio, Andrea Frediani, Giacomo Rispoli, Giuseppe Ricci, Battista Grosso, Antonio Fazio e Renato Morelli. I magistrati hanno ripercorso le origini dell’indagine. Il procuratore capo Asaro ha spiegato l’importanza di giungere a provare il nesso tra l’esposizione all’amianto e gravissime patologie correlate. “L’apporto della comunità scientifica è fondamentale”, ha detto. Per il pubblico ministero Mario Calabrese, i dati acquisiti e l’istruttoria dibattimentale avrebbero confermato l’esistenza di tutti i “marcatori” per arrivare alla conclusione che i mesoteliomi diagnosticati ai due ex operai sarebbero connessi alla loro attività in fabbrica. “Erano entrambi fumatori – ha spiegato il pm – ma il fumo da sigaretta non è correlabile al tipo di mesotelioma che li colpì”.
Per l’accusa, quindi, è dimostrato il nesso tra il costante contatto con l’amianto, molto usato in passato nello stabilimento di contrada Piana del Signore, e patologie “asbesto-correlate”. Gli imputati, da quanto emerso, non avrebbero fatto nulla per applicare misure di prevenzione, a tutela degli operai. A dicembre, toccherà ai legali di parte civile concludere. I familiari dei lavoratori morti, gli ex operai oggi malati e le associazioni Ona e Aria Nuova sono rappresentati dagli avvocati Maurizio Cannizzo, Davide Ancona, Ezio Bonanni, Vittorio Giardino, Paolo Testa, Concetta Di Stefano, Antonio Impellizzeri e Laura Caci. Responsabili civili, in giudizio, sono sia Raffineria di Gela che Syndial. Anche i legali delle aziende interverranno nel corso della prossima udienza. Spetterà poi ai difensori degli imputati esporre le rispettive conclusioni, prima che il giudice Miriam D’Amore emetta il verdetto.