Il Natale dell’indotto, gli operai non credono ai numeri di Eni: Cacici, “enormi colpe di politica e sindacato”

 
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Gela. La riconversione green della raffineria Eni di contrada Piana del Signore continua ad essere un processo piuttosto travagliato. I numeri che non convincono. Ad oltre due anni dalla firma del protocollo di intesa del novembre 2014, lo scetticismo sui numeri rassicuranti forniti dai manager del cane a sei zampe non coinvolge soltanto i sindacati. Tanti operai nutrono ben poche speranze sul rilancio del sito industriale locale. Molti di loro sono stati costretti a lasciare la città, davanti all’assenza di possibilità lavorative e, spesso, alla scadenza di tutti gli ammortizzatori sociali. “Credo che sindacati e politica locale debbano semplicemente vergognarsi – spiega l’operaio Francesco Cacici – Eni fornisce numeri che non trovano conferme in fabbrica. Gli operatori del diretto attualmente impegnati superano di poco le quattrocento unità e, da quanto emerge, i numeri si ridurranno ulteriormente con il nuovo anno. L’indotto, poi, fatica anche a toccare quota trecento operai impiegati. E’ stato un crollo totale, con tutto ciò che questo implica da un punto di vista di intere famiglie senza più la speranza di uno stipendio”. Francesco Cacici, a sua volta tra i referenti sindacali del settore metalmeccanico dell’Ugl, non fa fatica ad esporre una profonda autocritica. “Il sindacato ha tante responsabilità – conclude – bisognerebbe denunciare tante anomalie, a cominciare dal fatto che diverse aziende dell’indotto impiegano proprio personale a discapito di quella famosa lista di disponibilità, composta da operai dell’indotto rimasti fuori dal ciclo produttivo, mai veramente rispettata”. Mentre i vertici di Eni e le istituzioni politiche locali e regionali, a partire dal presidente Rosario Crocetta, parlano di “vera rivoluzione” descrivendo il processo di riconversione in atto, gli operai, soprattutto quelli dell’indotto, legano le loro uniche speranze di sopravvivenza non tanto ad un’inattesa chiamata dalla fabbrica quanto, piuttosto, ad un ingaggio, seppur a tempo determinato, in altre regioni italiane oppure all’estero. Destino che accomuna non solo i giovani lavoratori ma anche quelli che in fabbrica hanno lavorato per decenni. 

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