Il lavoro che uccide, “Repubblica” ricorda Romano: in città nessuno commemora chi muore per la dignità

 
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Si muore in città ma si muore anche quando si parte per cercare lavoro

Gela. Cinquantuno solo lo scorso anno. Sono questi i dati di una strage silente, quella dei morti sul lavoro in Sicilia. Un lunghissimo elenco che non smette di essere aggiornato. Repubblica-Palermo, nell’edizione di ieri, ha deciso di dedicare un approfondimento. Un breve focus su vite stroncate da un diritto basilare, il lavoro. Nella Spoon River (richiamando l’Antologia di Edgar Lee Masters) a firma di Giorgio Ruta, c’è anche il ricordo del trentenne Francesco Romano, schiacciato da un tubo da otto tonnellate alla radice pontile della fabbrica Eni di contrada Piana del Signore. Era il novembre del 2012 e per quei fatti è in corso un processo, arrivato al primo grado di giudizio, contro vertici del cane a sei zampe e responsabili dell’azienda per la quale lavorava il giovane metalmeccanico. Romano ha lasciato moglie e due bambine. Quello del trentenne è solo uno dei casi di un atlante della morte che si abbatte su chi va a lavorare, senza sapere che non farà mai più ritorno. A Palermo, come ricorda Ruta, proprio ieri Comune e Cisl hanno scelto di istituire la giornata delle vittime del dovere, piantando un albero a Villa Trabia. Una testimonianza, forse quasi scontata, che le istituzioni, troppo spesso distanti dal mondo del lavoro, hanno voluto garantire.

La lunga scia di morti. Negli ultimi anni, anche in città si sono susseguite morti bianche. C’è Romano, ma ci sono pure Salvatore Vittorioso, travolto da un’esplosione sempre in raffineria, così come nella fabbrica del cane a sei zampe ha perso la vita Antonio Vizzini. C’è poi il lavoro diventato fatale per Giuseppe Fecondo, morto dopo un gravissimo incidente nell’area industriale ex Asi, o ancora per Gaetano Accardi, stroncato nei cantieri per la realizzazione della condotta idrica a Manfria, e per il quarantaquattrenne Massimo Iacona, schiacciato da una pala meccanica nella discarica Timpazzo. Ma di lavoro muore anche chi parte per cercarlo. La vita del ventisettenne Gianluca Caterini è stata spezzata in un cantiere nei pressi di Ascoli Piceno. Nuccio Pizzardi, invece, lavorava in raffineria a Ravenna quando venne schiacciato da un serbatoio. Lontano da Gela era Mario Rampulla, morto all’interporto emiliano di Fontevivo, mentre manovrava un muletto. In territorio di Butera, Antonio La Porta, Vincenzo Riccobono e Luigi Gaziano, dipendenti di Rfi, vennero travoli da un treno in transito. La lista nera è ancora più folta se si aggiungono le decine di incidenti non mortali, che spesso comunque segnano la vita di chi li subisce.  In città, dove il lavoro muore insieme a chi lo cerca o lo trova, non c’è nessuna commemorazione. Sono morti e basta.

1 commento

  1. buona sera e inutile parlare dei poveri che non ci sono piu, x che chi deve vigilare sene fotte scusate il termine quando i lavoratori fanno 300 ore al mese non ce sicurezza e x questo che accadono gli infortuni dove sono lispettorati di vigilare i begg. si fanno troppe ore di lavoro notte giorno sabato e domenica e nessuno fa niente x che ai padroni devono evadere sugli straordinari ok

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