Quando il dolore rompe la porta della propria abitazione e si riversa per le strade, diventa dramma e il pubblico e il privato si mischiano dentro un tango dai movimenti schizofrenici. Si passano la rosa di bocca in bocca. Si guardano e inizia il primo passo.
È tango del vizio. È tango delle virtù.
E in questo assolo – tra pubblico e privato – si simula il passo del silenzio. Uno spazio bianco tra il Do e il La, in quello spazio tutto si conosce, tutto si dice, tutto si sentenzia, tutto si prevede, tutto si simula, specie il silenzio. Tutto si rompe specie il silenzio. E passa la rosa di bocca in bocca.
È l’era del pubblico, quella nella quale un albero di Natale viene processato per crimini contro l’umanità, quella nella quale la nudità di una statua viene difesa dalle luci colorate dentro una piazza che si chiama Umberto ma che ci è Madre. E’ l’era del pubblico, quella nella quale, con le medaglie al petto, i condottieri valorosi detentori della res publica (ma chissà quanto privata!) ci difendono dal Mostro umano della fallibilità politica, perché umana, appunto.
Sono pubblici la morte e il vuoto, suo compare.
Le mani di Medea che stringono la gola piccola e la sua piccola voce rotta dal pianto, dal terrore di scoprire la Madre così com’è: fallibile, nuda, crudele. Una Madre non madre, solo moglie.
Pubblico è il colore di due pigiami da bambine e il colore dei loro occhi. È un salto, un triplo carpiato tra pubblico e privato, tra ciò che è silenzio sempre rotto, sempre squarciato come la tela di Fontana e ciò che, invece, dovrebbe indurci – tutti – non a fare silenzio ma a cercare il silenzio.
(immagine tratta da un’opera dell’artista siriano Tammam Azzam)