A lezione da Philip Roth

 
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Nella foto: Philip Roth.

Quando scompare un grande scrittore, il mondo lo onora giustamente con un fiume di parole commemorative. Solo una parte di queste, però, fluisce dalla penna di chi è davvero titolato a fare un necrologio all’altezza del personaggio. Ecco perché qui eviterò un coccodrillo che vada ad aggiungersi inutilmente a quelli, ben più informati, che possono leggersi sulla stampa di tutto il mondo e che celebrano il genio narrativo di Philip Roth, il sommo romanziere americano morto il 22 maggio scorso all’età di ottantacinque anni.
Come è capitato a molti, quando ho appreso la notizia della sua morte sono stato investito dalla tempesta cerebrale che mi ha ripresentato in maniera vorticosa davanti agli occhi della mente tutti i suoi grandi personaggi che ho avuto la fortuna di incontrare e amare nel corso degli anni, da Portnoy a Sabbath, da Coleman Silk a David Kepesh, da Moishe Pipik a Peter Tarnopol, da Marcus Messner a Nathan Zuckerman, da Seymour Levov a sua figlia Merry, per citarne solo alcuni. Ma anziché tentare un discorso generale – che non mi compete – sull’opera di Roth, vorrei qui partire da un’esperienza didattica personale per proporre alcuni spunti di riflessione sul suo romanzo più celebrato, “Pastorale americana” (1997), che è valso al suo autore il Premio Pulitzer per la narrativa 1998.

Roth a scuola.
Un paio di settimane fa, trattando in una classe del Liceo delle Scienze Umane l’argomento di psicologia relativo allo sviluppo del Sé e della coscienza morale nell’età dell’adolescenza, ho proposto la visione del film del 2016 tratto dal suddetto romanzo. Il film, interpretato da Ewan McGregor (che ne è anche il regista) nel ruolo dello “Svedese” Seymour Levov, da Jennifer Connelly nel ruolo della moglie Dawn Dwyer e da Dakota Fanning nel ruolo della loro figlia Merry, restituisce molto bene il tema centrale del film, nonostante le inevitabili infedeltà e semplificazioni rispetto alla fonte letteraria, della cui complessità strutturale, per la verità, alla fine rimane ben poco nella trasposizione cinematografica.
Ma qual è il tema centrale della storia? Come hanno ben colto le adolescenti cui ho proposto il film, Roth mette a nudo con lucidità spietata il rapporto catastrofico che viene ad instaurarsi tra due genitori di successo e la loro unica figlia, la quale sviluppa un rancore edipico sempre più divorante nei confronti dei genitori. Il padre, un ebreo biondo e atletico, detto per questo “lo Svedese”, eredita una fabbrica di guanti di pelle ed è un modello di uomo e di imprenditore; la madre, una cattolica di origini irlandesi, è un’ex Miss New Jersey e fa di tutto per rendersi utile e scrollarsi di dosso l’etichetta di semplice trofeo di bellezza riservato a un uomo affermato e stimato da tutti per il suo carattere; Merry, invece, sin da bambina subisce il confronto estetico con la bellissima madre, è attratta dal padre, che naturalmente la “rifiuta” (“baciami come baci la mamma”, gli dice a un certo punto), e sviluppa una balbuzie psicologicamente devastante per tutta la famiglia. In tal modo l’idillio “pastorale” della tipica famiglia americana agiata degli anni Sessanta del XX secolo, che incarna alla perfezione l’idea dell’“ordine” etico borghese, viene minacciato dal “caos” incarnato da Merry e dal suo odio implacabile (“ordine”e “caos” sono parole che ricorrono in questo senso preciso nelle ultime righe del quinto capitolo della seconda parte del romanzo). A complicare ulteriormente le cose contribuiscono le terribili immagini dal Vietnam trasmesse dai telegiornali, una delle quali, in particolare, sconvolge la mente della piccola Merry: è quella, celebre, del monaco buddista che si dà fuoco a Saigon. Da qui Merry comincerà a percepire con un sentimento di disgusto sempre crescente il contrasto tra la quiete familiare che la circonda e l’orrore del mondo là fuori, nel quale spesso è coinvolto il suo stesso Paese. E così, crescendo, la ragazza rielabora in chiave politica la propria avversione nei confronti dei genitori e finisce per farsi attrarre dai movimenti di contestazione giovanile più radicali. Finché, un giorno, viene coinvolta nella messa in atto di un attentato terroristico, piazza una bomba e uccide un innocente. A questo punto, la distruzione del mondo familiare di ordine e rispettabilità faticosamente costruito dallo Svedese e dalla moglie è compiuta e il trionfo del caos è totale. Merry diventa una terrorista latitante, conosce lo stupro e il tradimento da parte degli “amici”, commette altri attentati terroristici e infine diventa una fanatica mistica giainista. È in queste vesti di indicibile lerciume e sfacelo fisico che diversi anni dopo la rincontra fuggevolmente il padre, il quale, diversamente dalla moglie, non si è mai rassegnato alla sua perdita.

Alcune cose che questa storia ci dice.
Come si può intuire da questa rapida sintesi, “Pastorale americana” si offre a una molteplicità di chiavi di lettura: da quella psicologica a quella sociologica, da quella storico-politica a quella squisitamente ideologica. In tal senso, può costituire uno strumento didattico molto efficace per iniziare dei giovani studenti a una serie di questioni complesse e delicate che li coinvolgono in prima persona. Qui basterà osservare che Roth illustra con un’efficacia straordinaria gli effetti devastanti delle ossessioni politico-ideologiche, cioè delle interpretazioni unilaterali della realtà. Allorché un cervello viene parassitato da un filtro interpretativo unico, le differenze e le sfumature svaniscono e il mondo risplende alla luce di una grottesca tonalità monocroma. Se Merry e una sua presunta amica, imbevute di propaganda rivoluzionaria, si convincono che lo Svedese è l’emblema stesso del capitalismo più bieco, ipocrita e feroce, a nulla valgono gli inviti di quest’ultimo ad osservare la realtà concreta della sua azienda, in cui lavorano in piena armonia operai di varie etnie, per i quali l’odio sociale e lo scontro di classe invocati dai teorici del conflitto sono concetti incomprensibili. Le menti coltivate all’insegna di una tale rigidità di movimento interpretativo sono destinate a passare da un dogmatismo all’altro. Quando lo Svedese incontra la figlia nella sua fase mistica, la trova preda di un radicalismo di segno totalmente diverso. Niente più insurrezione armata per liberare il pianeta da gente come Seymour Levov ma rispetto assoluto e demenziale per ogni forma di vita, se non addirittura per ogni cosa, come si legge in questo passo illuminante dell’inizio del sesto capitolo della seconda parte: «Portava il velo per non nuocere ai microscopici organismi che si trovano nell’aria che respiriamo. Non faceva il bagno perché venerava ogni forma di vita, compresi i parassiti. Non si lavava, disse, per non “fare del male all’acqua”. Non camminava quando faceva buio, anche nella sua camera, per timore di schiacciare qualche essere vivente».
Stimolati da un affresco narrativo così potente, dunque, è impossibile non andare con la mente ai fondamentalismi di vario genere che infestano ancora il mondo. È troppo facile, naturalmente, pensare al fanatismo religioso e ai suoi esiti terroristici su scala internazionale che abbiamo imparato a conoscere negli ultimi anni. Quello che Roth vuole mostrarci attraverso lo sguardo dello Svedese – un uomo laborioso, bonario e quasi incredulo di fronte all’oscena ottusità del pensiero dogmatico – è un pericolo che riguarda tutti, perché il comodo tunnel mentale che si imbocca quando si finisce sotto il controllo di uno schema interpretativo unilaterale è un modo di auto-organizzarsi cui il nostro cervello è naturalmente predisposto per buone ragioni evolutive. Si tratterebbe, allora, solo di tenere a freno questa propensione naturale; ma è un compito, questo, tutt’altro che facile, perché va svolto soprattutto su sé stessi e sappiamo tutti quanto sia piacevole il tepore emanato dai nostri pregiudizi più radicati e rassicuranti.

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