Novara. Ha rimesso tutto in discussione, non confermando la versione che ha poi portato all’arresto dell’imprenditore edile gelese Giuseppe Cauchi, a processo con l’accusa di essere il mandante dell’omicidio del trentatreenne Matteo Mendola, a sua volta gelese ma residente stabilmente in provincia di Varese. Antonio Lembo, condannato in primo grado a trenta anni di reclusione e ritenuto il killer di Mendola, si è trovato faccia a faccia con Cauchi, davanti ai giudici della Corte d’assise di Novara. Il corpo della vittima venne ritrovato nell’aprile di due anni fa, tra i boschi di Pombia. Il confronto si è tenuto ieri mattina, dopo essere stato chiesto dalla difesa dell’imprenditore, sostenuta dai legali Flavio Sinatra e Cosimo Palumbo. “Ricordo solo che ci eravamo incontrati per fare un furto – ha detto Lembo – ma alla fine saltò”. Secondo i pm piemontesi, invece, Lembo e Antonio Mancino, a sua volta condannato a trenta anni di detenzione per l’omicidio, avrebbero portato Mendola in un’area isolata, tra i boschi, e all’interno di un vecchio capannone abbandonato lo avrebbero finito a colpi di arma da fuoco, fracassandogli il cranio con una vecchia batteria per auto. L’arma venne ritrovata diverso tempo dopo. Lembo, però, ha negato tutto, compreso il movente del presunto debito di droga, ma anche il fatto che alcuni familiari della giovane vittima fossero creditori di Cauchi, che gli avrebbe dovuto versare del denaro, dopo averli impiegati in uno dei suoi cantieri. Forse, Mendola lo mise alle strette, chiedendogli il denaro, e l’imprenditore avrebbe deciso di ordinarne la morte. Tutte versioni che vengono respinte dall’imputato e dai suoi legali.
Cauchi ha ribadito di non aver mai avuto alcun contrasto con Mendola. Il presunto ordine di ucciderlo non sarebbe partito da lui. In aula, come sempre accade, c’erano i familiari del trentatreenne ucciso. Sono parti civili, con gli avvocati Giancarlo Trabucchi e Anna Maria Brusa. Ora, toccherà al pm della procura novarese concludere, con le richieste finali.